REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha
pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto dalla Wind Telecomunicazioni s.p.a., in
persona del suo procuratore pro-tempore Francesca Pace, rappresentata e
difesa dall’avv. Giuseppe Sartorio e dall’avv. Luca Di Raimondo ed
elettivamente domiciliata in Roma, Via della Consulta n.50;
il Comune di Ostuni, in persona del
suo legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall’avv.
Cecilia R. Zaccaria e dall’avv. Alberto Angeletti ed elettivamente
domiciliato in Roma, Via G. Pisanelli n.2 presso lo studio del secondo;
per l'annullamento
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Puglia -
Sezione di Lecce n.1774 del 10/5/2002;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’appellato;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive
difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 17 ottobre 2003 relatore il Consigliere
Giancarlo Montedoro;
Uditi, altresì, l’Avv. Sartorio, l’Avv. Di Raimondo, l’Avv. Angeletti
per sé e per l’Avv. Zaccaria;
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
Con ricorso in appello la Wind
Telecomunicazioni s.p.a. impugnava la sentenza in epigrafe indicata con
la quale il Tar di Lecce ha respinto il ricorso (e successivi motivi
aggiunti) proposto dalla Wind Telecomunicazioni s.p.a. avverso il
diniego di autorizzazione edilizia in sanatoria di cui all’atto prot.
23054/2000 del 18/6/2001; la diffida alla rimozione delle antenne
realizzate in Corso Vittorio Emanuele 205 ordinando all’ENEL l’immediata
sospensione della fornitura del servizio; le deliberazioni nn.2 e 3 del
12/1/2001 e dell’1/2/2001 con cui il Consiglio Comunale di Ostuni ha
adottato ed approvato una variante al PRG per l’installazione, la
modifica e l’adeguamento degli impianti di radiotelecomunicazione, fissi
o collocati su sopporti mobili, con frequenza compresa tra 100 Khz e 300
Ghz già impugnate con ricorso n.1357/2001; l’atto di demolizione di due
antenne ed un ponte radio installate su di un traliccio già esistente in
Corso Vittorio Emanuele n.205 prot. n.232/d del 12/10/2001.
Con lo stesso ricorso la WIND chiedeva il risarcimento del danno
ingiusto derivatole per l’adozione degli atti impugnati.
Con la sentenza impugnata il Tar in primo luogo rilevava l’improcedibilità
del ricorso per silenzio sull’istanza di sanatoria e per impugnativa
della prima ordinanza di demolizione resa senza previa pronuncia sulla
sanatoria, atti tutti superati dal diniego di sanatoria e dai
provvedimenti successivi.
Nel merito poi il Tar esaminava l’atto regolamentare di organizzazione
in tema di impianti di radiotelecomunicazioni adottato dal Comune di
Ostuni.
Poi ha sostenuto che la fondatezza dell’istanza di sanatoria, anche se
presentata in data anteriore all’adozione della disciplina regolamentare
da parte del Comune, in base al principio tempus regit actum, deve
essere valutata tenendo conto dello ius superveniens.
Sull’asserita incompetenza del Comune in materia di inquinamento
elettromagnetico ed, in particolare, sull’adozione di prescrizioni
limitative degli impianti di telefonia cellulare ha richiamato la legge
regionale della Puglia n.17 del 30/11/2000, anteriore alla riforma di
cui alla legge quadro n.36/2001, che già prevedeva il potere del Comune
di dotarsi di un regolamento di organizzazione del sistema di
telecomunicazioni, che integri la pianificazione territoriale, al fine
di minimizzare il rischio di esposizione delle popolazioni.
L’art.21 comma 1 poi prevedeva poteri del comune concernenti l’attività
autorizzatoria inerente la costruzione e l’esercizio degli impianti di
telecomunicazione con frequenza compresa fra cento Khz e trecento Ghz.
Disposizioni analoghe sono poi state dettate dalla legge quadro che ha
previsto un potere del Comune di adottare apposito regolamento per
assicurare il corretto insediamento urbanistico e territoriale degli
impianti e minimizzare l’esposizione della popolazione ai campi
elettromagnetici.
Alle regioni la legge quadro ha attribuito funzioni relative
all’individuazione dei siti di trasmissione, alle modalità per il
rilascio delle autorizzazioni all’installazione, all’individuazione di
strumenti ed azioni per il raggiungimento di obiettivi di qualità quali
ex art.3 comma 1 lett. d) n.1 e precisamente criteri localizzativi,
standard urbanistici, prescrizioni per l’utilizzo delle migliori
tecnologie disponibili.
La regione Puglia ha dato attuazione a tale previsione con la legge
8/3/2002 n.5. Detta legge disciplina all’art.8 modalità di rilascio
delle autorizzazioni e concessioni per l’installazione di impianti di
remittenza radiotelevisiva e stazioni radio base, impone divieti di
localizzazione, in corrispondenza di aree determinate e zone
determinate, demanda ad una delibera di Giunta regionale da emanarsi
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge
medesima la definizione di criteri generali per la localizzazione degli
impianti e per l’identificazione delle aree sensibili con la relativa
perimetrazione.
Il Comune di Ostuni ha esercitato le sue competenze in un quadro
giuridico anteriore a quello dell’entrata in vigore della legge quadro e
della relativa definizione delle competenze verticali fra Stato, regioni
e comuni.
Il Tar ha ritenuto che le disposizioni regolamentari non siano poi
caducate per effetto dello ius superveniens, salvo successive ulteriori
determinazioni della Giunta regionale.
In particolare passando all’esame della legge pugliese, la legge
regionale n.17/2000 il Tar ritiene che il regolamento, strumento
divenuto centrale nella realizzazione dell’autonomia comunale, non
costituisca – nella specie – espressione del potere di pianificazione
urbanistica in senso stretto.
La circostanza per cui, ai fini dell’autorizzazione alle stazioni radio
base, l’amministrazione comunale debba operare valutazioni di carattere
estetico ambientale, o di impatto urbanistico è il frutto della
rilevanza urbanistica dell’attività non della natura urbanistica del
potere esercitato, simile a quello esercitato dai comuni con l’adozione
dei regolamenti contro l’inquinamento acustico previsti e disciplinati
dalla legge quadro n.447 del 26/10/1995.
Sulle singole norme regolamentari il Tar osserva che il regolamento
prevede insediamenti in zone agricole, divieti assoluti in zone
sensibili, distanze dai confini, nonché particolari ulteriori divieti;
sostiene che i predetti impianti non possono essere qualificati fra le
opere di urbanizzazione primaria, elencate dalla legge n.874/1964 (art.4).
La sentenza rileva altresì che il Comune con l’individuazione delle zone
agricole non ha posto un divieto assoluto ma ha solo voluto indicare un
criterio preferenziale, teso ad evitare la concentrazione degli impianti
nei centri abitati.
Pertanto l’amministrazione deve, caso per caso, valutare la
compatibilità di un impianto con le caratteristiche della zona.
Il criterio della distanza di almeno duecento metri dai luoghi sensibili
viene giudicato non irragionevole o arbitrario.
Il criterio del divieto in alcune fasce territoriali in zona E si spiega
per l’essere tali zone soggette a vincolo paesaggistico (la sentenza
illustra il notevole interesse pubblico paesistico nelle zone costiere e
collinari di Ostuni).
Ancora si sottolinea, nella decisione, la mancanza di lesività del
regolamento in questione specie in relazione alla possibilità per i
titolari di licenze individuali per lo svolgimento dei servizi pubblici
di comunicazioni mobili, di impiegare infrastrutture di terzi o mettere
in comune impianti e siti al fine di esercire la licenza.
Poi la sentenza afferma che è legittima la previsione regolamentare che
assoggetta gli impianti in questione a concessione edilizia, non
trattandosi di pertinenze a servizio di edifici, ma di impianti aventi
un valore autonomo.
Il regolamento viene quindi ad essere valutato legittimo.
Sul diniego di sanatoria la sentenza afferma che esso è fondato su due
ragioni sostanziali: la prima il contrasto dell’antenna con l’altezza
pari a ventisei metri, con il limite delle altezze prescritto per il
centro abitato, pari a metri 11, ed in secondo luogo, per la violazione
delle prescrizioni regolamentari nella parte in cui vietano
l’installazione di antenne nel centro abitato.
Il secondo profilo viene valutato inconsistente dalla sentenza, in
assenza di puntuali specificazioni su quale sia il valore da tutelare,
la prossimità a siti sensibili, i valori estetici in giuoco.
Il primo profilo viene invece ritenuto rilevante, con applicazione
analogica delle normative in tema di altezze degli edifici al caso
dell’installazione delle antenne di impianti di telefonia cellulare,
applicazione ritenuta inevitabile stante il vincolo paesaggistico
gravante sull’area.
Da ciò il rigetto del ricorso e della domanda di risarcimento danni.
L’atto di appello con il primo motivo lamenta violazione di legge in
relazione agli artt.13 della legge n.47/1985, 35 e 36 della legge n.1150/1942,
dell’art.7 della legge n.865/1971, della legge n.36/2001, nonché eccesso
di potere sotto vari profili.
Con il primo motivo si aggredisce la diffida a rimuovere per
l’illegittimità del diniego di sanatoria e si lamenta l’illegittimità in
relazione al diniego di sanatoria, per vizi suoi propri e vizi derivati
dall’illegittimità delle delibere regolamentari.
Si sostiene che l’altezza non può rilevare poiché le antenne insistono
su un palo preesistente la loro installazione e non abusivo, nonché per
la ragione giuridica dell’inapplicabilità della disciplina delle altezze
previste per la costruzione degli edifici agli impianti di telefonia
mobile.
Con ulteriore profilo del primo motivo si contesta l’applicabilità del
regolamento per effetto del testuale tenore dell’art.13 della legge n.47/1985
che fa riferimento agli strumenti urbanistici generali e di attuazione
approvati al momento di presentazione della domanda e non
successivamente.
La domanda in atti è del 30/8/2000 mentre la data di adozione della
variante al PRG è 12/1/2001. In diverso caso si consentirebbe
l’applicazione retroattiva di una normativa regolamentare.
Si cita altresì l’articolo unico della legge n.1902 del 1952 che ed il
potere di sospensione della concessione, che contrasti con
strumentazione urbanistica sopravvenuta adottata ma non ancora
approvata, per inferirne che al di fuori di tali fattispecie non vi sia
alcuna possibile di dare rilevanza alla normativa sopravvenuta.
Si rileva che in caso di natura urbanistica dell’atto regolamentare esso
è in opponibile a chi ha presentato domanda prima della adozione dello
strumento urbanistico, mentre in caso di natura non urbanistica di tale
atto esso è comunque inapplicabile retroattivamente.
Si lamenta la mancata approvazione del regolamento ove inteso quale
strumento urbanistico, si cita la sentenza del Consiglio di Stato n.3096
del 3 giugno 2002 per sostenere che il regolamento non è stato adottato
con le garanzie partecipative previste per l’adozione degli strumenti
urbanistici, né con adeguata istruttoria, e che risulta imporre limiti
eccedenti dalla potestà urbanistica e costituenti deroga ai criteri e
limiti di esposizione fissati dallo Stato.
In ultimo si sostiene che gli impianti in questione hanno natura di
opere di urbanizzazione primaria, qualificazione espressamente
riconosciuta dalla legge 4 settembre 2002 n.198.
Con il secondo motivo, essendo superato quello originariamente proposto
contro la diffida a demolire, si ripropone il terzo motivo aggiunto di
ricorso violazione di legge, in relazione all’art.10 della legge n.47/1985
ed eccesso di potere: la postazione di antenne è soggetta a mera
autorizzazione e quindi in assenza del titolo abilitativo è soggetta a
mera sanzione pecuniaria e non a rimozione.
La rimozione poi viola anche le linee guida della procedura di
risanamento prevista nell’allegato C al D.M. n.381/1998.
La rimozione è stata disposta senza accertamento del superamento dei
limiti previsti dalla normativa nazionale di riferimento.
Con il terzo motivo di appello si lamenta violazione di legge in
relazione all’art.6 del t.u. enti locali nonché della legge n.36/2001 e
dell’art.4 del D.M. n.381/1998.
Si sostiene l’impossibilità – dopo l’approvazione della legge n.36/2001
– di esercitare il potere regolamentare comunale in assenza della
definizione del quadro giuridico della normativa statale e regionale.
Si rileva che la legge regionale n.12/2000 è abrogata dalla legge
statale n.36/2001 e comunque non legittima il Comune ad imporre limiti
derogatori rispetto alla normativa statale di cui al D.M. n.381/1998.
Inoltre viene denunciato il contrasto della normativa regolamentare con
la legge regionale n.5 del 2002 che demanda alla giunta regionale di
individuare una disciplina tipo di riferimento per l’adozione dei piani
o regolamenti comunali di cui alla lettera a) del successivo articolo 6.
Tale potere poi è ulteriormente precluso ai comuni dalla sopravvenuta
normativa di cui al d.lgs. n.198/1998.
Si richiamano alcune recenti decisioni del Consiglio di Stato sui limiti
del potere regolamentare del Comune (sentenze 3/6/2002 n.3096 e 6/8/2002
n.4096).
L’appello poi si diffonde in una panoramica delle recenti pronunce dei
Tar e delle opinioni dottrinali in materia.
Si nota che il divieto previsto dalla legge regionale pugliese di
installazione degli impianti di zone soggette a vincolo paesaggistico
sarebbe superato dal d.lgs. n.198/1998.
Si contesta la legittimità delle prescrizioni regolamentari nella parte
in cui prevedono distanze da luoghi sensibili senza tener conto della
prefissazione dei limiti di esposizione a livello statale.
Con il quarto motivo di appello si lamenta la violazione di diversi
precetti costituzionali (3, 21, 91, e 47 Cost.), della legge statale n.249/1997
e del D.P.R. n.318/1997, nonché l’eccesso di potere.
Si censura la sentenza nella parte in cui ha ritenuto inammissibile il
ricorso avverso disposizioni regolamentari non applicate o comunque
estranee alla fattispecie in esame.
Il Tar pugliese avrebbe ignorato le caratteristiche tecniche degli
impianti di telefonia cellulare (stazioni radio base), progettate in
modo tale da riuscire a coprire con una potenza di irradiamento molto
bassa, un limitato ambito territoriale detto “cella”.
Da ciò deriva la legittimazione di Wind ad impugnare tutte le
prescrizioni regolamentari immediatamente lesive in quanto determinanti
una particolare difficoltà nella disponibilità di aree che abbiano le
caratteristiche tecniche necessarie per assicurare la dovuta “copertura”
della rete.
In ultimo si reitera la censura sul difetto di istruttoria del
regolamento comunale.
Con il quinto motivo si deduce violazione di legge in relazione agli
artt.31 e 32 della legge n.1150/1942, 1 e 4 della legge n.10/77, 4 della
legge n.493/1993, 1 e 3 della legge n.241/1990, nonché eccesso di
potere.
Si contesta l’assoggettamento delle antenne a concessione edilizia e non
ad autorizzazione, anche di antenne di modeste dimensioni che non
producono volumi o superfici, determinanti aumento del peso insediativo;
si invoca anche la normativa sopravvenuta di cui al d.lgs. n.198/2002.
Con il sesto motivo si lamenta violazione di legge in relazione all’art.4
del D.M. n.381/1998, alla legge n.249/1997, ed all’art.16 della legge n.36/2001.
Si censura la previsione di fasce di rispetto che non sarebbe possibile
stabilire per impianti diversi dagli elettrodotti in base a quanto
previsto dalla legge n.36/2001.
Con il settimo motivo si deduce ancora violazione di legge ed eccesso di
potere sotto svariati profili.
La normativa statale ritiene assolutamente compatibile – nel rispetto
dei valori di cautela dettati dal Governo – gli impianti fissi di
telefonia con i nuclei residenziali, ivi compresi edifici adibiti a sedi
di convivenza.
Il divieto generalizzato ed assoluto di installazione di impianti nel
centro abitato, fondato sul criterio della distanza contrasta con la
normativa statale, ed è stato adottato senza fondamento scientifico e
giuridico.
L’appello è fondato per quanto di
ragione.
In primo luogo si deve rilevare che la sentenza, non impugnata sul punto
con appello incidentale, ha ritenuto non giustificato il diniego di
sanatoria fondato semplicemente sulla circostanza dell’essere l’impianto
sito in centro abitato, senza alcuna precisazione circa la prossimità a
siti o ricettori sensibili, a distanza inferiore a fasce di rispetto, o
ad altri valori estetici da tutelare anche se ha poi respinto il ricorso
ritenendo giustificato il diniego per contrasto dell’impianto con la
disciplina delle altezze delle costruzioni.
Si pone in questo caso la questione relativa al regime di appellabilità
delle sentenze che respingono il ricorso giurisdizionale avverso
provvedimento basato su plurimi motivi, ritenendo un motivo legittimo ed
altro illegittimo (ma insufficiente a pronunciare l’annullamento stante
l’autosufficienza dell’altro).
In via generale nel processo civile l’interesse e la
legittimazione ad impugnare si stabiliscono sulla base del dispositivo e
non in base alla mera motivazione.
L’interesse ad impugnare – rileva la Cassazione - sussiste solo in
presenza della soccombenza, intesa come situazione di fatto nella quale
la sentenza di primo grado abbia tolto o negato alla parte un bene della
vita accordandolo all’avversario, ed abbia quindi concretamente
determinato per la stessa una condizione di sfavore, a vantaggio della
controparte; una situazione di soccombenza in primo grado che sia invece
soltanto teorica - ravvisabile quando la parte, pur vittoriosa, abbia
però visto respingere talune delle sue tesi od eccezioni, ovvero taluni
dei suoi sistemi difensivi, od anche abbia visto accolte le sue
conclusioni per ragioni diverse da quelle prospettate - non fa sorgere
l’interesse ad appellare, e non legittima un’impugnazione, né
principale, né incidentale, ma impone alla parte, vittoriosa nel merito,
soltanto l’onere di manifestare in maniera esplicita e precisa la
propria volontà di riproporre le domande ed eccezioni respinte o
dichiarate assorbite nel giudizio di primo grado, onde superare la
presunzione di rinuncia, e quindi la decadenza di cui all’art.346 c.p.c.;
detta presunzione di rinuncia è peraltro riferibile soltanto a domande
ed eccezioni in senso proprio, e non già a mere argomentazioni
giuridiche o a questioni di fatto e di diritto addotte a sostegno di
tali domande o eccezioni, da intendersi implicitamente richiamate con la
proposizione dell’impugnazione o con l’istanza di rigetto di questa (Cass.,
sez. lav., 25/7/1994, n.6903).
Nel processo amministrativo ciò può avere dei temperamenti, trattandosi
di un processo di impugnativa di atti, quando esperito in giurisdizione
generale di legittimità, e si pensi alla situazione del ricorrente
vittorioso per alcuni motivi, e non per altri, dichiarati assorbiti, che
può avere interesse ad impugnare la sentenza al fine di ottenere una
riedizione del potere integralmente satisfattiva.
Particolare considerazione – per non essere stata a sufficienza indagata
- merita la posizione dell’amministrazione resistente, che si trovi ad
essere – come nella specie - (in apparenza) pregiudicata dalla mera
motivazione di una sentenza, che sostanzialmente abbia accolto un motivo
di ricorso, senza poi pronunciare l’annullamento dell’atto impugnato –
richiesto dal ricorrente - per la sufficienza della restante parte della
motivazione dell’atto (retto su plurimi profili di fatto e di diritto da
aggredire separatamente e contestualmente al fine di minarne il
fondamento) a reggere il provvedimento.
Si tratta di un tema arduo: collegato a quello dell’eventuale effetto
conformativo da riconoscersi ad una sentenza di rigetto.
Va rilevato che, nell’ottica tradizionalmente accolta dalla
giurisprudenza che tiene ferma la natura impugnatoria del processo
amministrativo, può ritenersi che la motivazione contenuta nel predetto
capo-motivo della sentenza impugnata, non legittimi il Comune
all’impugnazione, poiché il rigetto non ha attitudine ad innovare la
situazione sostanziale cristallizzata nell’atto, ma accerta
l’infondatezza dell’azione proposta dal ricorrente.
La giurisprudenza del Consiglio in proposito ha cercato di individuare
alcuni criteri che creano pregiudizio al soccombente teorico
legittimandolo all’impugnazione ma ciò è avvenuto soprattutto con
riferimento all’accoglimento non integralmente satisfattorio; ad es. per
C. Stato, sez.IV, 16/10/1998, n.1305 l’interesse ad impugnare in appello
una sentenza dei Tar va desunto dall’utilità giuridica (e non di mero
fatto) che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla
parte che lo propone, ma si collega necessariamente alla soccombenza,
anche parziale, nel precedente giudizio, mancando la quale
l’impugnazione è inammissibile; pertanto, deve escludersi l’interesse
della parte integralmente vittoriosa ad impugnare la sentenza al solo
fine di ottenere una modificazione della motivazione, salvo il caso che
da quest’ultima possa dedursi un’implicita statuizione contraria
all’interesse della parte medesima, nel senso che a questa possa
derivare pregiudizio da motivi che, quale premessa necessaria della
decisione, siano suscettibili di formare giudicato.
L’ultimo inciso è interessante: la giurisprudenza quindi legittima
all’appello avverso la motivazione, indipendentemente dalla posizione di
soccombenza basata sul dispositivo, le quante volte la motivazione sia
suscettibile di formare giudicato in pregiudizio di una parte (per CdS,
IV, n.1305/1998 un indice di questa attitudine della motivazione è
ricavabile dal suo essere premessa necessaria della decisione).
La circostanza si verifica di frequente – lo attesta la giurisprudenza -
con riguardo al ricorrente in primo grado che sia vittorioso, ma si sia
visto rigettare alcuni motivi di ricorso o colorare in un certo modo
l’accoglimento che, altrimenti, avrebbe assicurato una piena
satisfattività dell’azione, un pieno soddisfacimento dell’interesse
azionato (nella riedizione del potere peserà infatti il rigetto di
alcuni motivi e non di altri o la particolare colorazione della
motivazione).
Meno chiara è la situazione rispetto all’amministrazione resistente: una
motivazione di accoglimento di un motivo non decisivo ai fini
dell’annullamento dell’atto impugnato non è chiaro se possa incidere
sull’assetto sostanziale degli interessi disciplinato dal provvedimento
impugnato.
Il punto decisivo allora è quello dell’eventuale effetto conformativo
della sentenza amministrativa di rigetto, invero negato dalla
giurisprudenza e dalla dottrina prevalente.
Rispetto ad una sentenza di rigetto del ricorso – si è
detto - non può parlarsi di giudicato in senso proprio, producente cioè
effetti sfavorevoli sui punti decisi nei confronti di soggetti diversi
dal ricorrente o da eventuali interventori, in quanto tale sentenza, non
producendo effetti costitutivi o innovativi rispetto al precedente
assetto di rapporti sostanziali, ha il solo effetto di dichiarare
infondate le censure proposte dal ricorrente, a tutela dei suoi
esclusivi interessi sostanziali, e non anche quello di dichiarare
legittimo l’atto impugnato, e ciò tanto meno nei confronti di soggetti
che, pur se chiamati in giudizio, abbiano avuto la possibilità di
impugnare o abbiano per proprio conto impugnato, con atto separato, lo
stesso provvedimento (C. Stato, sez.VI, 21/2/1997, n.305).
La conseguenza sarà l’impermeabilità dell’atto alla sentenza di rigetto
con conseguente superfluità di ogni impugnazione.
Nella specie le considerazioni del giudice sul motivo di impugnazione
proposto avverso il diniego di sanatoria nella parte in cui riteneva
contrastante con lo strumento urbanistico la localizzazione della
stazione radio base nel centro abitato sono state sostanzialmente
accolte, esse tuttavia non possono considerarsi decisive per la
decisione, per non costituirne una premessa necessaria: inoltre la
posizione della amministrazione, sul punto, è solo di mera soccombenza
teorica (ossia priva di pregiudizio pratico), se è vero che l’atto è
rimasto integro nel suo contenuto provvedimentale e non è stato
formalmente toccato nel suo impianto motivatorio.
Al contrario – ove si ammetta l’effetto conformativo della sentenza di
rigetto in consonanza alla dottrina minoritaria che tende a valorizzare
il contenuto di accertamento insito nella sentenza amministrativa –
dovrà ammettersi che l’atto è dimidiato – per effetto della sentenza -
nel suo contenuto motivatorio (e ciò anche in assenza – e qui risiede il
problema, della statuizione di formale annullamento; per stare al caso
di specie ad es. l’istanza di sanatoria potrebbe essere ripresentata per
una minore altezza, e non potrebbe essere negata sulla mera circostanza
che le antenne sono situate in centro abitato).
Ed allora, muovendosi in tale ultima prospettiva, dovrebbe affermarsi
che se è inammissibile per difetto d’interesse l’appello avverso parte
della motivazione della sentenza di primo grado non avente rilevanza ai
fini della statuizione adottata e pronunciata nel dispositivo, (C.
Stato, sez.VI, 20/4/1985, n.157) all’inverso sarebbe sempre ammissibile
l’appello se la motivazione rilevasse ai fini della statuizione finale.
La statuizione contenuta nella sentenza amministrativa, per la
peculiarità del rapporto processuale amministrativo, non sarebbe
configurata solo dal dispositivo ma anche dalla motivazione (ed in tutti
i casi ossia sia nel caso di sentenza di annullamento, sia nel caso di
sentenza di rigetto).
Da ciò conseguirebbe la necessità per il Comune di appellare la sentenza
recante considerazioni favorevoli al ricorrente poiché tali
considerazioni sono suscettibili di passare in cosa giudicata
determinando un assetto di interessi in parte diverso da quello
programmato nell’atto.
In tale ipotesi la sentenza sarebbe passata in giudicato sul punto
relativo alla possibilità di installare le stazioni radio base nel
centro abitato, salvo la verifica concreta di incompatibilità
specifiche.
Ritiene il Collegio – pur apprezzando la profondità di alcuni argomenti
portati a favore dell’ammissibilità di un contenuto di accertamento
della sentenza di rigetto, avente riflessi anche sul rapporto
sottostante - che tale prospettiva non possa essere accolta e che,
quindi, la sentenza di rigetto, non abbia, in assenza dell’annullamento
dell’atto, attitudine ad innovare l’ordine giuridico, quale che sia la
portata della sua motivazione, per i limiti connaturati al processo
amministrativo che è processo di impugnativa di atti e non su rapporto
(al di fuori dei casi di giurisdizione esclusiva e su diritti) (in tal
senso CdS, Ad. plen. 21 ottobre 1980 n.37 afferma con chiarezza che il
giudice di appello conosce dell’atto impugnato e non della sentenza).
La pronuncia sul capo di domanda relativo all’illegittimità
dell’installazione dell’antenna nel centro abitato è quindi valutabile
dal giudice di secondo grado, poiché anche in assenza di un motivo
specifico dell’appello principale che investa tale capo (per chiederne
la conferma), non è applicabile l’art.329 comma 2 c.p.c. per cui
“l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti della sentenza
non impugnate”; non potendosi configurare acquiescenza dell’appellante
rispetto a capi della sentenza a sé favorevoli (e non può quindi
considerarsi legittimo l’atto, sotto quel particolare profilo
motivatorio giudicato illegittimo dal giudice di primo grado solo perché
l’appellante non ha chiesto al giudice d’appello di confermare il
giudizio del giudice di primo grado).
Tale oggetto del giudizio viene quindi, in assenza di motivi di appello
e di specifiche eccezioni dell’appellato ad essere traslato
automaticamente innanzi al giudice di secondo grado che, tuttavia, potrà
riformare in melius la sentenza di primo grado solo in presenza di
specifiche deduzioni dell’appellato ex art.346 c.p.c. (senza delle quali
si intende rinunciato ogni eccezione tendente ad ottenere la riforma del
capo della sentenza).
In assenza di deduzioni specifiche opererà, infatti, il divieto di
reformatio in peius (non trattandosi di questione sulla quale è
possibile che il giudice si pronunci d’ufficio, essendo relativa alla
valutazione, nel merito, di un motivo di ricorso e delle eccezioni che
ne imporrebbero il rigetto).
Nella specie il Comune non ha specificamente ed espressamente riproposto
gli argomenti relativi all’incompatibilità della localizzazione con il
centro abitato, limitandosi a difendere l’astratta possibilità di una
disciplina regolamentare tesa alla minimizzazione dell’impatto delle
installazioni di stazioni radio base ed a richiamare i limiti previsti
dagli strumenti urbanistici in tema di altezze.
Ciò comporta, per effetto del principio devolutivo e del divieto di
reformatio in peius della sentenza nelle parti favorevoli
all’appellante, che è ormai pacifico fra le parti, tanto da non dover
costituire più oggetto di giudizio da parte del giudice, che il
regolamento non ha posto divieti assoluti di installazione delle antenne
nel centro abitato, e che l’unica questione rilevante è quella relativa
al mancato rispetto dell’altezza, di mt. 11 prevista espressamente per
le costruzioni.
La questione centrale della controversia – a questo punto - è quella
proposta con il primo motivo del ricorso d’appello (già oggetto del
primo motivo del ricorso di primo grado) relativa all’applicabilità del
limite delle altezze dettato per le costruzioni ad impianti tecnologici
come le stazioni radio base (nella specie costituita da due antenne ed
un ponte radio ubicate a ridosso di un preesistente palo Enel).
Ritiene il Collegio che non sia ammissibile l’applicazione analogica di
limiti in materia di altezza dettati con riferimento a diverse strutture
e manufatti di rilievo urbanistico ed edilizio.
In assenza di specifiche prescrizioni deve ritenersi che la
realizzazione degli impianti predetti non sia soggetta a prescrizioni
urbanistico edilizie preesistenti, dettate con riferimento ad altre
tipologie di opere, elaborate quindi con riferimento a possibilità di
diversa utilizzazione del territorio, nell’inconsapevolezza del fenomeno
della telefonia mobile e dell’inquinamento elettromagnetico in generale.
Il titolo concessorio non può essere negato se non con riguardo ad una
specifica disciplina conformativa che prenda in considerazione le reti
infrastrutturali tecnologiche necessarie per il funzionamento del
servizio pubblico.
La sentenza impugnata riconosce che l’applicazione analogica non può
basarsi sull’assunto di una supposta equivalenza in termini edilizi fra
il concetto di costruzione e quello di impianto tecnologico, nella
specie un’antenna dotata di caratteristiche del tutto diverse da quelle
delle costruzioni in senso proprio.
Infatti gli impianti tecnologici normalmente non sviluppano volumetria o
cubatura, se non limitatamente ai basamenti o alle cabine accessorie,
non determinano ingombro visivo paragonabile a quello delle costruzioni,
non hanno l’impatto sul territorio degli edifici in cemento armato o
muratura.
Inoltre le stazioni radio base, per esigenze di irradiamento del
segnale, si sviluppano normalmente in altezza, tramite strutture
metalliche, pali o tralicci, talora collocate su strutture preesistenti,
su lastrici solari, su tetti, a ridosso di pali.
Queste caratteristiche peculiari devono essere oggetto di una
valutazione separata e distinta del fenomeno, che il comune può ben
compiere nell’esercizio della sua potestà regolamentare, in astratto, in
via generale, ma con riguardo allo specifico fenomeno delle
infrastrutture telefoniche, non potendosi applicare in via analogica una
normativa edilizia concepita per altri scopi e diretta a regolamentare
altre forme di utilizzazione del territorio.
Il giudice di primo grado recupera l’applicabilità della normativa
edilizia, in via analogica, dalla circostanza della sottoposizione a
concessione, e dalla rilevanza del contesto nel quale l’impianto deve
inserirsi ritenendo la limitazione esistente in funzione della tutela di
beni e valori esistenti nel contesto di riferimento.
Ma questa opera di interpretazione integrativa ed analogica, pur
ispirata a finalità costituzionalmente orientate, non è consentita, in
difetto di sufficienti tratti di analogia dei fenomeni da regolare (non
potendosi equiparare costruzioni ed impianti tecnologici), né può
legittimarsi solo per l’esistenza di un esigenza conservativa di nuclei
ambientali e contesti (che trovano in altre normative i loro presidi) e
finendo per risolversi in una valutazione discrezionale, fatta caso per
caso, in relazione al contesto urbanistico e paesaggistico nel quale
l’impianto va ad inserirsi della esistenza degli estremi per applicare i
limiti di piano.
L’applicazione analogica di una normativa dettata per gli edifici agli
impianti tecnologici, se consentita, non può non valere con riferimento
a tutti gli impianti , indipendentemente dal contesto urbanistico nel
quale essi sono inseriti, dovendo altrimenti concludersi nel senso di
una diversa considerazione del medesimo manufatto in dipendenza di
esigenze di forte protezione conservativa di alcune aree, con
inammissibile sovrapposizione dell’apprezzamento dell’interprete
(orientato nel senso di perseguire alcune finalità di protezione)
all’operatività dei canoni dell’interpretazione.
Da ciò deriva l’accoglimento, sul punto, dell’appello (ed il conseguente
annullamento degli atti di diniego di sanatoria del 18/6/2001 e di
successiva diffida del 28/7/2001 impugnati con ricorso originario e
dell’atto di ingiunzione a demolire del 12/10/2001 impugnato con i
motivi aggiunti), salvi gli ulteriori provvedimenti
dell’amministrazione, che potranno aver cura anche dell’interesse
paesaggistico, non espressamente valutato negli atti impugnati (se non
nella prima ingiunzione a demolire del 14/7/2000 sulla quale è
sopravvenuta l’improcedibilità del ricorso di primo grado, come
dichiarato dalla sentenza di primo grado e come è pacifico fra le parti,
per l’intervento dei citati provvedimenti successivi ora annullati) e
considerato nella memoria del 14/1/2003 del Comune di Ostuni presentata
in grado d’appello.
La possibilità, al ricorrere dei presupposti previsti dal legislatore,
della sanatoria di opere edilizie ai sensi dell’art.13 l. n.47 del 1985
non è preclusa, infatti, dalla sottoposizione dell’area interessata
dall’intervento a vincolo paesistico, dovendo tuttavia l’interessato
conseguire, seppure in via postuma, l’autorizzazione di cui all’art.7 l.
n.1497 del 1939 (C. Stato, sez. VI, 21/2/2001, n.913.)
Vanno poi valutati i motivi di appello (ed i motivi di ricorso di primo
grado riproposti mediante l’impugnazione della sentenza) diretti avverso
l’atto regolamentare e la variante di PRG, che possono trattarsi
unitariamente per la loro stretta connessione logica e rispetto ai quali
la società appellante ha immediato interesse all’impugnazione, essendo
soggetto che quale operatore economico che deve assicurare un
determinato servizio in ambito comunale, vede il proprio interesse
imprenditoriale direttamente inciso dalla normativa adottata.
Sul punto è intervenuta la sentenza CdS, VI, 30 luglio 2003 n.4392, che,
su analoga impugnativa degli stessi atti proposta dalla società OMNITEL,
ne ha disposto l’annullamento: pertanto, in forza dell’esecutività della
sentenza citata, può essere dichiarata, sui motivi di impugnazione
relativi agli atti presupposti, la sostanziale cessazione della materia
del contendere.
L’appello è quindi in parte accolto mentre per la restante parte va
rilevata l’intervenuta cessazione della materia del contendere.
Sussistono giusti motivi per compensare le spese del giudizio.
Il Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale, Sezione Sesta, accoglie in parte il ricorso in appello
indicato in epigrafe ed, in riforma della sentenza impugnata, per
l’effetto accoglie in parte il ricorso di primo grado ed annulla il
diniego di sanatoria del 18/6/2001, ed i consequenziali atti di diffida
del 28/7/2001 e di ingiunzione a demolire del 12/10/2001 impugnata con i
motivi aggiunti; dichiara per il resto cessata la materia del
contendere.
Compensa tra le parti le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'Autorità
amministrativa.
Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2003, dal Consiglio di Stato in sede
giurisdizionale - Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con
l'intervento dei Signori:
Mario Egidio SCHINAIA Presidente
Luigi MARUOTTI Consigliere
Carmine VOLPE Consigliere
Giuseppe ROMEO Consigliere
Giancarlo MONTEDORO Consigliere Est.
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