| sommario | legislazione | giurisprudenza | tabelle |modulistica || pubblicazioni | recensioni | links | utilities | |iusambiente è |
T.A.R. Lecce 1041/2002 |
REPUBBLICA
ITALIANA IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO Il
Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sez. I^ di Lecce composto dai
signori magistrati: Aldo Ravalli
Presidente Paolo
Severini
Componente Maria Ada
Russo
Componente relatore ha
pronunciato la seguente SENTENZA Sui
ricorsi riuniti nn. 304/01 e 1295/01 proposti
da Nigro Angelo, rappresentato
e difeso dagli Avv.ti G.Pellegrino
e A. Salvi, ed elettivamente domiciliato in Lecce presso lo studio
Pellegrino, in via Augusto Imperatore n.16; CONTRO Comune di
Ceglie Messapica, rappresentato
e difeso dall’Avv. F. Larocca ed elettivamente domiciliato in Lecce
presso lo studio Martucci, Via Matteo da Lecce; il primo ricorso - per
l’accertamento della sussumibilità del mutamento di destinazione
d’uso nelle ipotesi nelle quali è sufficiente la comunicazione di inizio attività;
- per l’annullamento della
nota dirigenziale n. 1630 del 10.2.2000; - per l’annullamento del
silenzio rifiuto sulla istanza di concessione edilizia presentata dal
ricorrente in data 24.2.2000; -per il risarcimento del
danno; il secondo ricorso -per l’annullamento, previa sospensiva, della nota del
Dirigente U.T. del Comune di Ceglie Messapica in data 24.1.2001; Visti i ricorsi con i relativi
allegati; Visti gli
atti tutti di causa; Data per
letta, alla pubblica udienza del 21 novembre 2001, la relazione del
Referendario, dott.ssa Maria Ada Russo, e uditi, altresì, gli Avv. ti
Gianluigi Pellegrino e Larocca Francesco; Ritenuto e
considerato in fatto e diritto quanto segue: Ritenuto
in fatto Il ricorrente è proprietario
di un fabbricato a piano terra, sito in Ceglie Messapica, ed è titolare
di concessione edilizia n. 5281 del 1997. A seguito di successive
varianti, nel 1999 gli è stato rilasciato un certificato di agibilità
con destinazione laboratorio artigianale. In data 21.1.2000, il medesimo
ricorrente ha presentato al comune una comunicazione di variazione di
destinazione d’uso (DIA),
senza opere, per mutamento d’uso da laboratorio artigianale a locale
commerciale; tuttavia, in data 10.2.2000, con il provvedimento
impugnato, gli è stato comunicato che “non è consentita la
variazione di destinazione d’uso mediante denunzia di inizio attività
ai sensi dell'art. 2, comma 60, della legge 662 del 1996”. Pertanto, in data 23.2.2000 il
ricorrente ha provveduto a chiedere il rilascio di concessione edilizia
per cambio di destinazione d’uso. Con il primo
ricorso (ric. 304/2001), l’interessato ha chiesto sia l’accertamento
della sussumibilità del mutamento di destinazione d’uso nelle ipotesi nelle quali è sufficiente la comunicazione di
inizio attività; e sia l’annullamento della nota dirigenziale n. 1630
del 10.2.2000 e del silenzio rifiuto sulla istanza di concessione
edilizia presentata dal ricorrente in data 24.2.2000; infine ha
formulato una richiesta di risarcimento del danno. In data
24.1.2001 il Comune di
Ceglie Messapica gli ha comunicato che “la CEC, nella seduta del
12.12.2000, ha espresso parere contrario sull’istanza per cambio di
destinazione d’uso (da laboratorio artigianale e locale commerciale)
in quanto il cambio di destinazione d’uso richiesto comporta
variazione di standard urbanistici… non trattandosi di zona mista
produttiva per cui l’art. 5 del D.I. 2.4.1968 disciplina e differenzia
al comma 1° gli standard per gli insediamenti a carattere industriale o
artigianale e al comma 2° gli standard per gli insediamenti a carattere
artigianale”. Quest’ultimo
atto è stato impugnato con il secondo ricorso (ric. 1295/2001). Tanto
premesso, con la prima impugnativa (ric. 304/01) l’interessato
eccepisce i seguenti motivi: 1)in via
principale violazione art. 4 comma 7 legge 398 del 1993; violazione e
falsa applicazione art. 2, legge 662 del 1996 e art. 25 legge 47 del
1985; violazione di principi consolidati in tema
di mutamenti di destinazione d’uso; disparità di trattamento; 2) in via
subordinata, eccesso di potere, violazione art. 4 DL 398 del 1993,
violazione legge 241 del 1990. (In particolare, il ricorrente –(oltre a
sostenere la tempestività del ricorso in relazione alla nota in data
10.2.2000 (che non avrebbe
natura provvedimentale e comunque non conterrebbe l’indicazione circa
i termini per impugnare)) – specifica che, a seguito della pronuncia
della Corte Costituzionale n. 73/91, devono distinguersi l’ipotesi del
mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie (sottoposto a
mera autorizzazione in presenza di norma regionale di riferimento) e
quello con opere (che invece necessita di concessione edilizia). Nel
caso di specie, trattasi di mutamento di destinazione da laboratorio
artigianale a locale commerciale senza esecuzione di opere e, pertanto,
il dirigente “doveva prendere atto della avvenuta DIA”. In via
subordinata, è stato eccepito che sarebbe stata violata anche la norma
di cui all’art. 4 del DL 398 del 1993 “atteso che, decorsi 10 mesi
dalla presentazione dell’istanza, nessun provvedimento è stato
formalizzato dalla PA”.) Con memoria depositata il 7
febbraio 2001 si è
costituito il Comune di Ceglie Messapica. Nella stessa è stato
rilevato, oltre alla tardività, che con nota del 24.1.2001 l’ufficio
comunale provvedeva a comunicare la decisione negativa sull’istanza
del ricorrente, a seguito di parere contrario espresso nella seduta del
12.12.2000 dalla CEC, in quanto il cambio di destinazione d’uso
richiesto comporta variazione di standards urbanistici. Infine, il Comune ha specificato che “trattasi di destinazione di
zona esclusivamente industriale artigianale e non mista
commerciale-artigianale …pertanto, nel caso di specie, si avrebbe una
variazione di standards con modifiche del carico urbanistico”. Con la seconda impugnativa
(ric. 1295/01), con la quale è stata impugnata la nota del Dirigente
U.T. del Comune di Ceglie Messapica in data 24.1.2001 il sig. Nigro ha
eccepito: 1)
violazione e falsa applicazione artt. 8 e 25, comma 4, della
legge 47/85, artt. 2 e segg. DM 1444/68; violazione di consolidati
principi in tema di mutamento d’uso (si
contesta in particolare che la previsione di situare in una apposita
zona gli insediamenti relativi alle attività secondarie, per evitare
che gli stessi si situino in zona residenziale, “non significa affatto
che dalla zona stessa debbano rimanere esclusi gli insediamenti
commerciali (e ciò è tanto vero che non esiste un espresso divieto in
tal senso, né è prevista una apposita zona per gli insediamenti
commerciali)”. Inoltre, l’art. 5, n. 2, del Dm 1444/68 disciplina le
differenze di standard tra i nuovi insediamenti a carattere industriale
e quelli a carattere commerciale e direzionale, quando invece
l’immobile del ricorrente è inserito in un contesto urbanistico i cui
standard sono regolati nel Pdf); 2)
disparità di trattamento; eccesso di potere; (ad avviso del ricorrente in casi analoghi l’A.C. si sarebbe comportata
diversamente rilasciando l’agibilità per uso capannone
artigiano-industriale valida altresì per uso di negozio e deposito
all’ingrosso); 3)
violazione artt. 23 e segg. Del D. lgs.vo 112/98 e 5 DPR 447/98;
eccesso di potere per sviamento e carenza istruttoria e di motivazione (si
contesta che l’A.C. doveva, se riteneva l’istanza del ricorrente in
contrasto con gli strumenti urbanistici, attivare la procedura prevista
dalla normativa richiamata relativa alla convocazione di una conferenza
di servizi). Con memoria depositata il 7
maggio 2001 si è costituito il Comune di Ceglie Messapica che resiste e
ribadisce l’infondatezza dell’impugnativa alla luce di una serie di
considerazioni: a)
la “destinazione di zona esclusivamente industriale
–artigianale e non (come il ricorrente afferma) mista
commerciale-artigianale”; b)
il fatto che nessuna attività commerciale è stata autorizzata o
viene svolta all’interno della predetta zona industriale-artigianale; c)
il richiamo alle NTA del Piano Quadro che non prevede appunto
alcuna forma di attività commerciale all’interno della zona; d)
la circostanza che il richiesto mutamento d’uso comporterebbe
variazioni di standards con modifiche al carico urbanistico e nella
categoria di cui al citato DM del 1968 (si puntualizza che una attività
commerciale abbisogna di un’area di parcheggio più ampia rispetto a
quella di un edificio ad uso abitativo); e)
la non applicabilità al caso di specie dell’art. 4, comma 7°,
del DL 398/93 atteso che la lettera g) impone che le varianti a
concessioni già rilasciate non incidano sui parametri urbanistici e
sulle volumetrie. Con ordinanza n. 915 del 7.6.2001 la Sezione ha respinto la
domanda di sospensione dei provvedimenti impugnati con il ricorso
1295/01. Con memoria depositata in data 10 novembre 2001 il
ricorrente ha riassunto le sue conclusioni chiarendo
che: a)
le zone
commerciali sono incluse dal DM n. 1444/68 in una
categoria omogenea alle zone industriali e artigianali (D) e
pertanto sono compatibili con le stesse; b)
nel Pdf
di Ceglie non esiste una distinzione all’interno della zona D
prevedendosi nel piano una zona residenziale (nella quale non possono
insediarsi attività secondarie) e una zona destinata ad attività in
senso lato produttive; c)
se
l’esemplificazione contenuta nell’art. 4 titolo IV del Pdf dovesse
considerarsi tassativa sarebbe impedito il diritto di svolgere nuove
attività commerciali, non potendo le stesse inserirsi in nessuna delle
due zone; d)
l’art.
5 del DM 1444 prevede al comma 1 gli standards per i nuovi insediamenti
di carattere industriale o ad essi assimilabile; e al comma 2 i nuovi
insediamenti di carattere commerciale e direzionale (il locale del Nigro
qualora fosse utilizzato anche per la vendita dei mobili si
qualificherebbe quale insediamento assimilabile a quello industriale più
che di carattere commerciale-direzionale); e)
dai dati
tecnici elaborati dal professionista incaricato della variante alla
concessione edilizia rilasciata al ricorrente risulta, infine, che per
una superficie coperta pari a mq. 922.08 è previsto un parcheggio per
mq. 539.40 ed un’area destinata a verde e piazzale pari a mq. 1235.52
(pertanto, sarebbe rispettato il rapporto previsto dall’art. 5 del
citato DM 1444 comma 2 (mq. 40 a 100 mq)); f)
sussiste
interesse all’accertamento del silenzio rifiuto considerata anche la
richiesta di risarcimento dei danni. Il
ricorso è stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del
10 gennaio 2002.
Considerato in diritto In
primo luogo, deve essere disposta la riunione dei ricorsi ai sensi
dell’art. 52 del RD n.642 del 1907 essendosi verificate le particolari
circostanze che la consentono: contemporanea giacenza delle cause da
riunire davanti al medesimo giudice, esistenza di un nesso di
connessione tra loro e sussistenza di ragioni di opportunità
processuale tali da giustificare l’applicazione dell’istituto de quo. 1)Con
il primo ricorso (ric. 304/2001), l’interessato ha chiesto sia
l’accertamento della sussumibilità del mutamento di destinazione
d’uso nelle ipotesi nelle
quali è sufficiente la comunicazione di inizio attività e sia
l’annullamento della nota dirigenziale n. 1630 del 10.2.2000 e del
silenzio rifiuto sulla istanza di concessione edilizia (in data
24.2.2000); infine ha formulato una richiesta di risarcimento del danno.
Il
ricorso – premesso che si può prescindere dall’esaminare la
questione dell’accertamento (considerato che il ricorrente ha
presentato in data 23 febbraio 2000 istanza di concessione edilizia) e
premesso pure che, ad avviso del Collegio, non vi è spazio per una
tutela risarcitoria, anche in
mancanza di elementi di prova a supporto - è improcedibile per
sopravvenuta carenza di interesse anche nella parte relativa al silenzio
rifiuto (essendo successivamente intervenuto il provvedimento espresso
del Comune in data 24.1.2001). Al
riguardo, in data 24.1.2001, il Comune
di Ceglie Messapica ha comunicato al ricorrente che “la CEC, nella
seduta del 12.12.2000, ha espresso parere contrario sull’istanza per
cambio di destinazione d’uso (da laboratorio artigianale e locale
commerciale) in quanto il cambio di destinazione d’uso richiesto
comporta variazione di standard urbanistici… non trattandosi di zona
mista produttiva per cui l’art. 5 del D.I. 2.4.1968 disciplina e
differenzia al comma 1° gli standard per gli insediamenti a carattere
industriale o artigianale e al comma 2° gli standard per gli
insediamenti a carattere artigianale”. 2)Quest’ultimo
atto è stato impugnato con il secondo ricorso (ric. 1295/2001) nel
quale sono stati eccepiti: ¨
violazione
e falsa applicazione artt. 8 e 25, comma 4, della legge 47/85, artt. 2 e
segg. DM 1444/68; violazione di consolidati principi in tema di
mutamento d’uso; disparità di trattamento; eccesso di potere;
violazione artt. 23 e segg. Del D. lgs.vo 112/98 e 5 DPR 447/98; eccesso
di potere per sviamento e carenza istruttoria e di motivazione. La
seconda impugnativa è fondata per accoglimento del primo motivo di
ricorso ed assorbimento degli altri. La controversia concerne questione di mutamento di
destinazione d’uso (da laboratorio artigianale a locale commerciale). La questione dell’ammissibilità del predetto mutamento di
destinazione d’uso impone una riflessione a monte piuttosto ampia ed
estesa circa i limiti intrinseci (e per così dire impliciti) della
pianificazione urbanistica e territoriale; in altre parole, occorre
chiedersi se, quando e quanto sia possibile <<espandere>> e
rendere flessibili le previsioni degli strumenti urbanistici. Tradizionale dottrina e giurisprudenza insegnano che la
pianificazione riguarda sia gli aspetti di assetto del territorio, con
profili anche non propriamente urbanistici,
che quelli urbanistici
in senso stretto. In ogni caso, la ratio
della pianificazione è rinvenibile nell’aspirazione all’ordine e
alla globalità della totalità del territorio di riferimento e a
garanzia della stabilità delle previsioni urbanistiche e del relativo
affidamento del cittadino. E’ evidente che le Autorità – nello svolgimento del
loro ruolo di governo del territorio – oltre a vedere
correlarsi naturalmente l’attività urbanistica e quella di
programmazione economica (cosa che, in alcuni casi, ha determinato un
incremento dei contenuti di dettaglio dei vari piani) – sono
consapevoli anche dell’evoluzione continua della situazione originaria
degli assetti. Tanto premesso, è parimenti evidente che l’esigenza di
ordine e globalità della disciplina–
per evitare punti di rottura - deve essere controbilanciata da una certa
mobilità in relazione alle concrete esigenze di volta in volte espresse
dal contesto e dagli operatori privati e socio-economici interessati
(tanto spiega eventuali meccanismi derogatori o aggiuntivi per adeguare
le sfasature tra le previsioni di piano e gli assetti territoriali). Pure la tradizionale distinzione in zonizzazioni e
localizzazioni non deve essere ingessata in rigidi schemi e meccanismi e
deve, pertanto, essere collegata con le situazioni di fatto ed i
complessivi delicati aspetti di ordine fisico, storico e
socio-economico. Più in dettaglio e per limitare le considerazioni ad una
trattazione meno generalizzata, anche la distinzione tra aree edificate
e non edificate (zone agricole) è intesa, specie di recente, dalla
giurisprudenza in un senso meno rigido e maggiormente flessibile, pur
nel rispetto del principio del razionale e ordinato sfruttamento del
territorio di riferimento. Una questione interessante, che costituisce anche uno dei
profili più delicati, è
quella del rapporto tra la destinazione di una certa zona e le eventuali
attività compatibili. La verifica di questo profilo comporta delle significative
conseguenze sulla soluzione dei problemi relativi al mutamento di
destinazione d’uso. In proposito, si ritiene che il problema deve essere risolto in base a principi di
carattere generale; in altre parole, sono ammissibili tutte quelle
attività integrative e aggiuntive o migliorative che non si pongono
insanabilmente in contrasto
con la zona e con la sua destinazione. Al riguardo, il concetto di <<contrasto>> va
inteso utilizzando il criterio della prevalenza della destinazione sullo svolgimento delle altre attività. Peraltro, è sempre necessaria una valutazione caso per caso
relativa alla compatibilità; tuttavia, siffatta operazione dimostra e
conferma la sussistenza di una certa flessibilità dello strumento di
pianificazione (oltre che la sua opportunità). Ad esempio si può ritenere che la destinazione ad
insediamenti industriali implica l’esclusione, dalle relative zone, di
costruzioni diversamente caratterizzate (abitative, per esempio). Invece, nelle altre zone devono essere di volta in volta
considerate ed effettuate valutazioni complessive di tutta una serie di
elementi (caratteri e i limiti da osservare con riguardo
all’edificazione in relazione ad altezze, distanze e rapporti tra
scoperto e coperto). Mutatis mutandis,
le stesse considerazioni fin qui svolte valgono anche in relazione alla
ammissibilità del mutamento d’uso (o di destinazione d’uso)
su una concessione già rilasciata (e, pertanto, in ordine a fabbricati
già esistenti, ma inseriti in una determinata zona e destinazione di
zona). In proposito, prima di richiamare la normativa specifica sul
tema, si deve precisare
che, ad avviso del Collegio - valorizzando il concetto di un ampio
godimento degli immobili da parte dei proprietari, che trova la
previsione costituzionale dell’art. 42 – possono ritenersi
ammissibili quei mutamenti che – nell’ottica di un
<<arricchimento dei contenuti degli strumenti urbanistici di
pianificazione>> e fermo restando il rispetto dei principi
generali di base - non comportino uno stravolgimento così significativo
della destinazione di zona ed una incompatibilità intollerabile
rispetto alla ratio della previsione originaria dello strumento urbanistico di
regolazione del territorio. Appare opportuno, a questo punto, richiamare la normativa in
materia di mutamento di destinazione d’uso. L’art. 1 della legge n. 10/77, in ordine alla
trasformazione urbanistica del territorio e concessione di edificare,
prevede che <<ogni attività
comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio
comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la esecuzione delle
opere è subordinata a concessione da parte del sindaco, ai sensi della
presente legge>>. L’art. 25 della legge n. 47 del 1985, relativo alla
semplificazione delle procedure, nel testo modificato dall'art. 4, D.L.
5 ottobre 1993, n. 398 e sostituito dall'art. 2, comma 60, L. 23
dicembre 1996, n. 662, stabilisce all’ultimo comma che <<le leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi
a trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti,
subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi e non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione>>.. L'art. 25 legge cit. ha, in sostanza, demandato alle Regioni
la predisposizione dei criteri della eventuale «...regolamentazione, in
ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d'uso
degli immobili, nonché dei casi in cui per la variazione di esse sia
richiesta la preventiva autorizzazione del sindaco. La mancanza di tale
autorizzazione comporta... le sanzioni... ed il conguaglio del
contributo di concessione se dovuto». Peraltro, anche l’art. 8 della stessa legge, relativo alla
determinazione delle variazioni essenziali, dispone che <<le
Regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto
approvato …. tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente
quando si verifica una o più delle seguenti condizioni>>
tra le quali alla
<<lettera a) mutamento della destinazione d'uso che implichi
variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 2 aprile
1968 pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968…>>. Infine, l’art. 4, comma 7, del D.L. n. 398/93 alla
lettera e) disciplina la denuncia di inizio di attività. In giurisprudenza con
una analisi puntuale ed attenta- è stata ricostruita la ratio
della legge n. 47 del 1985 in relazione alla formulazione dell'art. 1
della legge n. 10 del 1977 (che allargava l'ambito dell'attività
edilizia dalle singole costruzioni alla «trasformazione del territorio»),
ed è stato precisato che la legge del 1985, senza grande chiarezza,
tendeva a recuperare gli aspetti positivi di due posizioni dottrinarie
che si erano affermate all’epoca (si fa riferimento ad un primo
orientamento più aderente
allo spirito ed alla lettera della legge n. 10 del 1977, che estendeva
sotto il controllo pubblicistico «...ogni
attività comportante trasformazione urbanistica...» e ad un secondo
indirizzo, ancorato all'impianto originario della legge n. 1150 del
1942, e riconducibile ad
una visione più «statica» dell'urbanistica che legava strettamente il
momento della licenza edilizia all'esecuzione di opere; in base a questa
seconda impostazione la costruzione esaurirebbe temporalmente la
funzione della previsione urbanistica che tornerebbe in rilievo o
solamente nel caso di modificazioni strutturali.) Orbene, la Regione Puglia non ha emanato la relativa
normativa La giurisprudenza (ex
multis, T.a.r. Campania, sez. I, 30-10-1992, n. 382) ha altresì
chiarito che possono aversi due distinte situazioni. 1)se la disciplina urbanistica permette in una certa zona più
utilizzazioni, non si versa nel caso di «trasformazione urbanistica del
territorio» ai sensi dell'art. 1 della legge n. 10 del 1977 quando si
ha allocazione di una di queste in un immobile senza far ricorso ad
opere (è' infatti evidente che in tali casi la previsione di una
pluralità di possibili attività nell'ambito del comparto sia preceduta
da una previa valutazione delle compatibilità socio-territoriale delle
stesse con il tessuto urbanistico e conseguentemente, qualora venga
posta in essere un'attività consentita dalla normativa urbanistica, non
è necessaria né concessione, né autorizzazione al mutamento
funzionale di destinazione in quanto la stessa disciplina pianificatoria
attribuisce in via generale ai proprietari di immobili di utilizzare
liberamente gli stessi nell'ambito delle attività consentite); 2) se invece il mutamento riguarda una delle attività non
ammesse dalla disciplina di zona si deve distinguere a seconda se la
Regione abbia emanato o meno i
criteri per la regolamentazione delle destinazioni d'uso degli immobili
di cui all’art. 25 citato (a:nella prima ipotesi è possibile far
luogo all'autorizzazione edilizia, previo conguaglio degli oneri di
urbanizzazione se dovuti se naturalmente la variazione di destinazione
richiesta sia compatibile con gli usi ammessi in deroga alla disciplina
dell'area; b:nella seconda ipotesi non è
in ogni caso possibile modificare ad
libitum le destinazioni d'uso degli immobili in contrasto con le
disposizioni del regolamento edilizio in quanto in tale ipotesi manca la
norma che legittima usi diversi in deroga alle norme regolamentari
valide ed efficaci quali quelle del regolamento edilizio). Nel secondo caso (Regione che non emana i relativi criteri)
non vi è dubbio che la normativa urbanistica di zona costituisce un
limite al cambio di destinazione d’uso; tuttavia, se si accede
all’impostazione della naturale capacità espansiva degli strumenti
urbanistici – se pure in limitati casi e senza portare il principio a
conseguenze aberranti – tale limite non appare insuperabile. Da un lato è copiosa la giurisprudenza che menziona la
“normativa urbanistica di zona” o “lo strumento urbanistico
nell’ambito della zona”. D’altro canto è vero però che gli orientamenti
giurisprudenziali, specie recenti, valorizzano il concetto di <uso
compatibile e valutazione concreta della compatibilità degli interventi
edilizi>. In altre parole, il Collegio ritiene che possa aversi una
situazione nella quale: 1)l’intervento edilizio progettato è volto a
realizzare opere di impatto poco significativo e incidente sul
territorio in minima parte (l’ipotesi è assai vicina al mutamento di
destinazione d’uso senza ricorso ad opere); 2)in relazione a
queste si deve valutare la compatibilità concreta con la destinazione
di zona, avuto riguardo anche ad eventuali insediamenti preesistenti di
altro tipo. Tanto precisato: a)da un lato, il Consiglio di Stato (C. Stato, sez. V,
21-07-1995, n. 1113) ritiene che il mutamento d'uso non collegato a
lavori di modifica o a modificazioni del progetto in corso d'opera, non
ha di per sé rilievo ai fini urbanistici, restando in ogni caso
urbanisticamente indifferente il passaggio da una ad altra destinazione
d'uso rientrante nelle varie destinazioni d'uso consentite dallo
<<strumento urbanistico nell'ambito della zona>>. Altra giurisprudenza (cfr., C. Stato, sez. V, 09-02-1996, n.
146) ha ritenuto che, nel caso in cui la <<normativa urbanistica
di zona>> non consenta il mutamento di destinazione d'uso di un
immobile, (nella specie, laddove le norme tecniche d'attuazione dello
strumento urbanistico prevedono gli insediamenti per attività
professionali ai piani diversi dal piano terreno degli edifici, solo
quando non siano saturate le quote massime di ogni destinazione, come
indicate nelle schede di ogni unità d'intervento), le convenzioni
intervenute tra il privato ed il comune anche in epoca anteriore, non
possono costituire deroga alla normazione urbanistica, in quanto gli
strumenti urbanistici successivi sono idonei tanto a limitare le facoltà
di un soggetto già destinatario di una concessione edilizia, quanto ad
influire sull'interpretazione e sull'attuazione delle disposizioni
contenute nella convenzione. Nello stesso senso anche T.a.r. Sicilia, sez. Catania,
27-10-1994, n. 2377 in base al quale, ai sensi dell'art. 10 l.reg.sic.
n. 37/85, deve ritenersi che ogni intervento di mutamento della
destinazione di uso di un immobile rispetto a quella impressa con
precedente provvedimento concessorio debba formare oggetto di
provvedimento autorizzatorio, a prescindere dalla sussistenza o meno di
realizzazione di opere edilizie, ed è ammesso solo a condizione che
rientri tra i casi di mutamento <<previsti dallo strumento
urbanistico generale e rispetti le prescrizioni di zona>>. b)la giurisprudenza più recente appare, come si è detto,
maggiormente orientata verso una interpretazione evolutiva della
normativa e dei concetti appena richiamati. Con pronuncia del 1998 (C. Stato, sez. V, 03-01-1998, n. 24)
il Consiglio di Stato ha specificato che la richiesta di cambio della
destinazione d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito
delle modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona
urbanistica, ma sia volta a realizzare un <<uso del tutto
difforme>> da quelli ammessi, si pone in <<insanabile
contrasto con lo strumento urbanistico>>, posto che, in tal caso,
si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra
i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in
un'alterazione idonea ad incidere, significativamente sulla destinazione
funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli
equilibri prefigurati in quella. Da ultimo, a conforto della ricostruzione effettuata, si
richiama la pronuncia della Sezione V del
Consiglio di Stato (n. 949 del
23.2.2000) laddove, escludendo la sussistenza di un divieto assoluto di
mutamento delle destinazioni d'uso nelle zone agricole (in attesa che
gli strumenti urbanistici contengano una puntuale disciplina al
riguardo), precisa che, nelle more dell'adeguamento degli strumenti
urbanistici comunali alla suddetta normativa regionale, non può
disconoscersi il potere del Sindaco di assentire <<semplici
cambiamenti d'uso in zona agricola>>, tutte le volte che essi non
si pongano in aperto contrasto con l'assetto urbanistico vigente. Questione diversa è, invece, quella risolta da recentissima
sentenza della Sezione V del Consiglio di Stato (n. 6411 del 27 dicembre
2001) che ha ritenuto che comporta un diverso carico urbanistico
l’utilizzo di capannone -originariamente destinato ad opificio
industriale- per la gestione di beni finiti, prodotti da altra azienda,
regolando il flusso e il deflusso delle scorte sulla base di valutazioni
legate al ciclo di commercializzazione del bene prodotto (in
particolare, è stato ritenuto che tale attività, attratta
nell’ambito della disciplina civilistica dell’intermediazione
commerciale configura il passaggio del capannone dal settore industriale
a quello commerciale). Orbene, nel caso in esame, non sussiste la normativa
regionale, funzionalizzata a prevedere e a disciplinare i casi in cui si
possa fare eccezione alla tassatività delle prescrizioni in materia di
destinazioni d’uso degli immobili. Tuttavia, in base alle argomentazioni svolte circa la capacità
espansiva dei provvedimenti di pianificazione in relazione alla
valorizzazione delle esigenze dello sviluppo economico del territorio
(che pure sono rispettosi delle indicazioni comunitarie, anche in
materia di libera concorrenzialità in senso lato) si ritiene
ammissibile la richiesta trasformazione richiesta da laboratorio
artigianale a locale commerciale. Al riguardo, l’edificio di proprietà del ricorrente è
ubicato nel lotto n. 11 della zona industriale –artigianale di cui al
Piano Quadro per gli Insediamenti Produttivi. Il provvedimento impugnato, adottato dal Comune di Ceglie M.
in data 24 gennaio 2001, è motivato sul fatto che il cambio di
destinazione d’uso richiesto comporta variazione di standard
urbanistici non trattandosi
di zona mista produttiva. Dallo stalcio del citato Piano Quadro, allegato in atti,
risulta che <<la zona
oggetto del P.Q. è destinata alle attività secondarie consistenti in
edifici ed attrezzature per l’attività industriale e quelle attività
artigianali che non possono insediarsi nelle zone residenziali; inoltre,
è consentita l’installazione di laboratori, magazzini, silos,
rimesse, edifici ed altre attrezzature di natura ricreativa e sociale a
servizio degli addetti, uffici, mostre connesse all’attività
artigianale, nonché abitazione per il reparto direttivo, di
sorveglianza e manutenzione degli impianti>>. L’articolo 5 del DM del 1968, riferito ai rapporti massimi
tra gli spazi destinati a insediamenti produttivi e gli spazi pubblici
destinati alle attività collettive, a verde pubblico o a parcheggio,
prevede che <<I rapporti
massimi di cui all’art. 17 della legge n. 765 per gli insediamenti
produttivi sono definiti :1) nei nuovi insediamenti di carattere
industriale o ad essi assimilabili compresi nelle zone D la superficie
da destinare a spazi pubblici o attività collettive, verde pubblico o a
parcheggi non può essere inferiore al 10% dell’intera superficie
destinata all’insediamento; 2)nei nuovi insediamenti di carattere
commerciale e direzionale, a 100 mq di superficie lorda di pavimento di
edifici previsti, deve corrispondere la quantità minima di 80 mq di
spazio, di cui almeno la metà destinata a parcheggi>>. Tanto premesso, dalla documentazione allegata (relazione
istruttoria della pratica edilizia n. 5281/A/B del 29.11.2000) emerge
che <<nel PDF e nella relativa variante planovolumetrica della
zona c.4 compresa nel Piano Quadro del 1995 è previsto per le zone
“per servizi di interesse comune” l’insediamento, tra l’altro,
di attrezzature tecnico-distributive (depositi, magazzini all’ingrosso
…)…emerge quindi che i parametri urbanistici ed edilizi di tale zona
siano assimilabili, se non addirittura meno restrittivi, rispetto a
quelli vigenti per le zone industriali-artigianali>> (peraltro, il
lotto n. 11 è ubicato in posizione prossima alla zona c. 4 ed a questa
complessivamente omogeneo per parametri urbanistici ed edilizi). Infine, il ricorrente ha pure depositato una perizia di parte
dalla quale risulta il rispetto degli standard di cui al DM del 1968
(superficie coperta/parcheggio/verde). In ultimo, si precisa che, come documentato dal ricorrente,
sembra che in casi analoghi
l’A.C. non abbia adottato i medesimi criteri di comportamento,
(autorizzando l’esercizio di vendita all’ingrosso e al minuto di
bevande in locali siti nella zona industriale-artigianale).
Appare
opportuno richiamare, in ultimo, alcune decisioni giurisprudenziali che
–oltre ad effettuare la valutazione di compatibilità degli interventi
edilizi in atto- hanno valorizzato il concetto di <attività
libera>> (cfr. Cons.
di Stato, Sez. V,
27 dicembre 1998, n. 852; Sez. V,
10 marzo 1999, n. 231; T.A.R. Lombardia, Sezione di
Brescia, 24 ottobre 1991, n. 726). Ad
esempio, il Consiglio di Stato, con la prima decisione, ha ritenuto che
<<il mutamento di destinazione d'uso degli immobili deve essere
individuato in base al progetto presentato e non con riferimento ad
ipotesi future. La ratio
sottesa all'imposizione del contributo di urbanizzazione previsto dalla
L. 28 gennaio 1977 n. 10 contestualmente al rilascio di una concessione
di costruzione si fonda sul presupposto dei maggiori carichi urbanistici
che conseguono nella zona alla realizzazione dell'opera assentita;
pertanto, non è dovuto alcun contributo per le opere di trasformazione
di un immobile da una ad aItra destinazione, qualora da tali opere non
risultino mutate “in modo apprezzabile” le caratteristiche
urbanistiche della zona (nella specie si è ritenuto non dovuto il
contributo in questione con riguardo alla trasformazione di un immobile
da uffici a scuola)>>. Sempre
il Consiglio di Stato, con la richiamata pronuncia del 1999, ha
precisato che <<in via generale, salve eventuali normative
regionali richiamate nell'art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio
1985, n. 47, il mutamento di destinazione d'uso sotto il profilo
edilizio e urbanistico è rilevante solo se conseguente all'esecuzione
di opere tali da rendere l'immobile strutturalmente idoneo ad un uso
diverso da quello precedente. La modificazione d'uso meramente
funzionale (e cioè senza l'esecuzione di opere edilizie) deve invece
considerarsi attività libera, non soggetta nemmeno ad autorizzazione
edilizia>>. Il
Collegio ritiene che si inquadrano in questa (sia pur relativa e
limitata) liberalizzazione dei procedimenti assentivi degli interventi
(minori) e di limitata deregolamentazione anche i seguenti indici ed
aspetti: a)alcune
posizioni dottrinarie recenti, peraltro minoritarie, relative alla
questione delle “opere interne” (di cui all’art. 26 della legge n.
47 del 1985 e alla una nuova definizione legislativa contenuta negli
artt. 4, 7° c., lett. e) del D.L. n. 398/93, conv. in l. n. 493/93, 2,
60° comma, della l. n. 662/96 e 11 del D.L. n. 67/97, conv. con
modificazioni in l. n. 137/97), in base alle quali
non sussisterebbe più il divieto di un aumento delle superfici
utili o di modifica (fuori dal centro storico) della destinazione
d’uso o, per gli immobili della zona A, di modifica delle originarie
caratteristiche costruttive, salvo il rispetto del numero delle unità
immobiliari (si parla infatti di “opere interne di singole unità
immobiliari”); in
particolare, la destinazione d’uso sarebbe stata praticamente
deregolamentata; b)la
circostanza che l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, nel parere
n. 3 del 29 marzo 2001, reso sullo “Schema di testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, ha
convenuto sull’opportunità di sostituire il termine concessione
con un nome nuovo (quale permesso
-corrispondente al termine francese permis
de construction ou de batir- o permissione
o assentimento o altro, il
quale dia il segnale della rivisitazione sistematica operata dalle norme
riformatrici e assestata nel testo unico); che, peraltro, non denoti una
recessione del diritto del proprietario e per converso non disconosca la
funzione sociale del diritto ad edificare, affermata dalla Costituzione;
c)alcune
considerazioni che si traggono dalla lettura del nuovo T.U.
dell’edilizia (decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001,
n. 380) che, in primo luogo, è volto alla riduzione dei titoli
abilitativi (la concessione edilizia e la denuncia di inizio attività,
con conseguente superamento dell’autorizzazione) e che, ad esempio,
sul problema della gratuità o meno della denuncia di inizio attività,
ha demandando all’autonomia comunale la scelta tra le due possibili
soluzioni, ma ha previsto comunque che, in assenza di specifica
deliberazione del Comune, l’intervento edilizio deve intendersi non
assoggettato ad oneri (si ritiene che le considerazioni svolte possono
restare ferme anche se l’art. 10 del citato D.p.r. n. 380 del 2001 ha,
sostanzialmente, confermata l’interpretazione (più restrittiva) della
legislazione precedente sul mutamento di destinazione d’uso
(nel senso che non risulta deregolamentato, essendo sottoposto
– a seconda delle zone e ferma restando una disciplina regionale – a
obbligo di permesso di costruire, o di denuncia di inizio di attività,
di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) e comma 2)); d)la circostanza che, nello stesso predetto parere
dell’Adunanza Generale del 2001 - se da un lato si evidenzia che
<l’unicità della disciplina della materia della concessione
edilizia costituisce un punto fondamentale di omogeneità,
indispensabile per dare garanzia al cittadino di uniformità di
comportamenti in qualsiasi Regione egli intenda operare nel settore; la
stessa non può pertanto costituire oggetto di una disciplina
differenziata da Regione a Regione> -
dall’altro, si riscontra, in fatto, la sussistenza, in alcune
Regioni di una <legislazione in difformità dalla disciplina
generale, con l’istituzione, ad esempio, della cd. super
d.i.a., (sulla quale il Governo non ha ritenuto di sollevare in
proposito questione di legittimità costituzionale)>. Tale
diversificazione, avvertita a livello regionale, può essere letta come
un indice della naturale esigenza di evoluzione e di adeguamento della
normativa in materia. In conclusione, per quanto sopra esposto, il secondo ricorso
(n. 1295/01) deve essere accolto. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese. PQM Il
Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sez.I^ di Lecce,
definitivamente pronunciando, dichiara improcedibile per sopravvenuta
carenza di interesse il primo ricorso (n. 304/2001), ed accoglie il
secondo ricorso (n. 1295/2001). Dichiara
integralmente compensate tra le parti le spese del giudizio. Ordina
che la presente Sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa. Così
deciso in Lecce nella camera di consiglio del 10.1.2002. Presidente
Aldo Ravalli Estensore
Maria Ada Russo |