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T.A.R. Lecce 1040/2002 |
REPUBBLICA
ITALIANA IN
NOME DEL POPOLO ITALIANO Il
Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sez. I^ di Lecce composto dai signori magistrati: Aldo Ravalli
Presidente Paolo Severini
Componente Maria Ada Russo
Componente relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso n. 28/01 proposto da
Tardio Paolo, rappresentato e difeso dall’Avv. Adriano Tolomeo ed
elettivamente domiciliato in Lecce presso il suo studio, in via Augusto
Imperatore n.16; CONTRO Comune di Campi Salentina, non costituito; per
l’annullamento della nota in data 11.10.00 del Dirigente dell’Utc
del Comune di Campi Salentina; Visto il ricorsi con i relativi allegati; Visti gli atti tutti di causa; Data per letta, alla pubblica udienza del 10 gennaio
2002, la relazione della dott.ssa Maria Ada Russo e udito altresì
l’Avv. Adriano Tolomeo; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto
segue: Ritenuto in fatto Il ricorrente è proprietario di un compendio di aree nel Comune di Campi
Salentina, sulle quali sono state realizzati un campo sportivo,
ulteriori attrezzature sportive e una abitazione. Il medesimo ha presentato al comune una istanza di concessione edilizia
per mutamento di
destinazione d’uso dell’immobile originariamente assentito ad uso
abitativo, volta alla trasformazione in pizzeria ad uso esclusivo dei
frequentatori del centro sportivo. Tuttavia, con il provvedimento impugnato, in data 11.10.2000,
gli è stato comunicato che “la CEC ha espresso parere
contrario in quanto l’attività prevista non è compatibile con quanto
previsto dall’art. 35-1 del REC che prevede attività compatibili con
l’agricoltura”. L’interessato eccepisce i seguenti motivi di ricorso: violazione
e falsa applicazione art. 4 DL 398/93; carenza istruttoria e di
motivazione (In particolare, il
ricorrente precisa che l’intervento per il quale si è richiesto
l’assenso comunale si riduceva ad un “mutamento funzionale di
destinazione d’uso di un preesistente immobile di sua proprietà e che
le uniche opere da realizzarsi riguardavano mere opere interne con la
realizzazione di tramezzature e l’adeguamento
dei preesistenti impianti elettrici ed igienici alle nuove esigenze
dell’immobile”. A suo
avviso si tratterebbe di “interventi ricompresi tra quelli che ai
sensi dell’art. 4, comma 7, Dl 398 del 1993 sono soggetti a mera DIA e
a ciò non osta la circostanza che l’immobile si trova in zona
tipologia E”. Infine, il ricorrente ritiene che “nella zona omogenea
E del Comune di Campi S. non è vietato in assoluto la realizzazione di
interventi edilizi strumentali ad attività umane che non siano quelle
agricole”.) Con ordinanza n.190
del 24 gennaio 2001 questo Tar ha respinto la domanda incidentale
di sospensione ritenendo che il diniego di cambio di destinazione
d’uso incide sullo sviluppo dell’attività ma non sull’attività
in atto. In data 3 gennaio 2002 il ricorrente ha depositato memoria conclusiva
nella quale ha ribadito le argomentazioni svolte nel ricorso e, in
particolare, ha specificato che la destinazione agricola della zona non
determina una inedificabilità assoluta, eccezion fatta per interventi
oggettivamente agricoli, bensì preclude la creazione di nuova
residenzialità nella zona che ne snaturi le caratteristiche e la
destinazione primaria (così non è, a suo avviso, nel caso di specie, nel quale
l’intervento è esiguo (mq 73 totali) e ha natura privata perché
destinata esclusivamente ai frequentatori del centro sportivo). Il ricorso è stato trattenuto per la decisione alla
pubblica udienza del 10.1.2002.
Considerato in diritto La controversia concerne questione di mutamento di destinazione d’uso
(da immobile originariamente assentito ad uso abitativo a trasformazione
in pizzeria ad uso esclusivo dei frequentatori del centro sportivo). L’interessato eccepisce i seguenti motivi di ricorso: violazione e falsa
applicazione art. 4 DL 398/93; carenza istruttoria e di motivazione. La questione dell’ammissibilità del predetto mutamento di destinazione
d’uso impone una riflessione a monte piuttosto ampia ed estesa circa i
limiti intrinseci (e per così dire impliciti) della pianificazione
urbanistica e territoriale; in altre parole, occorre chiedersi se,
quando e quanto sia possibile <<espandere>> e rendere
flessibili le previsioni degli strumenti urbanistici. Tradizionale dottrina e giurisprudenza insegnano che la pianificazione
riguarda sia gli aspetti di assetto del territorio, con profili anche
non propriamente urbanistici, che
quelli urbanistici in senso
stretto. In ogni caso, la ratio della
pianificazione è rinvenibile nell’aspirazione all’ordine e alla
globalità della totalità del territorio di riferimento e a garanzia
della stabilità delle previsioni urbanistiche e del relativo
affidamento del cittadino. E’ evidente che le Autorità – nello svolgimento del
loro ruolo di governo del territorio – oltre a vedere
correlarsi naturalmente l’attività urbanistica e quella di
programmazione economica (cosa che, in alcuni casi, ha determinato un
incremento dei contenuti di dettaglio dei vari piani) – sono
consapevoli anche dell’evoluzione continua della situazione originaria
degli assetti. Tanto premesso, è parimenti evidente che l’esigenza di ordine e
globalità della disciplina–
per evitare punti di rottura - deve essere controbilanciata da una certa
mobilità in relazione alle concrete esigenze di volta in volte espresse
dal contesto e dagli operatori privati e socio-economici interessati
(tanto spiega eventuali meccanismi derogatori o aggiuntivi per adeguare
le sfasature tra le previsioni di piano e gli assetti territoriali). Pure la tradizionale distinzione in zonizzazioni e localizzazioni non deve
essere ingessata in rigidi schemi e meccanismi e deve, pertanto, essere
collegata con le situazioni di fatto ed i complessivi delicati aspetti
di ordine fisico, storico e socio-economico. Più in dettaglio e per limitare le considerazioni ad una trattazione meno
generalizzata e più attinente al caso di specie, anche la distinzione
tra aree edificate e non edificate (zone agricole) è intesa, specie di
recente, dalla giurisprudenza in un senso meno rigido e maggiormente
flessibile, pur nel rispetto del principio del razionale e ordinato
sfruttamento del territorio di riferimento. Ad esempio, per quanto da un lato le zone agricole (E) mantengono la loro
peculiare funzione di tutela del valore ambientale e di polmone verde,
d’altro canto, le stesse, in sede di legislazione regionale, vengono
anche considerate come zone produttive
e non vengono
limitate all’esercizio effettivo dell’agricoltura e dei suoi
interessi, ma sono volte ad evitare ulteriori insediamenti edilizi,
pregiudizievoli per l’equilibrio complessivo del territorio. Sul punto, la giurisprudenza ha chiarito che la destinazione a verde
agricolo ben può essere diretta ad assicurare il bilanciamento tra aree
edificate e non (cfr., Cons. Stato, sez. IV, n. 581 del 1 giugno 1993;
sez. V, n. 968 del 28 settembre 1993; sez. IV, n. 464 dell’11 giugno
1990). A prescindere da eventuali problemi di costituzionalità delle riserve a
destinazioni di zona (in passato sollevati e risolti dalla Corte
Costituzionale –cfr. Corte Costituzionale n. 789 del 23 giugno 1988)
una questione interessante, che costituisce anche uno dei profili
più delicati, è quella del rapporto tra la destinazione a zona
agricola e le eventuali attività compatibili. La verifica di questo profilo comporta delle significative conseguenze
sulla soluzione dei problemi relativi al mutamento di destinazione
d’uso. Partendo sempre dalla precisazione che la destinazione a zona agricola non
può restringersi alla sola coltivazione del fondo e che la stessa
preclude gli insediamenti residenziali tout
court, si ritiene che il
problema cui si accennava prima (del mutamento di destinazione) deve
essere risolto in base a principi di carattere generale; in altre
parole, sono ammissibili tutte quelle attività integrative e aggiuntive
o migliorative che non si pongono insanabilmente in
contrasto con la zona e con la sua destinazione. Al riguardo, il concetto di <<contrasto>> va inteso
utilizzando il criterio della prevalenza
della destinazione (utilizzato anche in ambito comunitario) sullo
svolgimento delle altre attività. E’ appena il caso di precisare che sono stati ritenuti ammissibili in
zona agricola una serie di interventi (a titolo esemplificativo, si
richiamano: deposito di esplosivi, discariche, e impianti
idroelettrici). Peraltro, è sempre necessaria una valutazione caso per
caso relativa alla compatibilità; tuttavia, siffatta operazione
dimostra e conferma la sussistenza di una certa flessibilità dello
strumento di pianificazione (oltre che la sua opportunità). Ad esempio, si ritiene che i casi di destinazione ad insediamenti
industriali implicano l’esclusione, dalle relative zone, di
costruzioni diversamente caratterizzate (abitative, per esempio). Invece, nelle altre zone devono essere di volta in volta effettuate
delicate valutazioni, considerati una serie di elementi (caratteri e
limiti da osservare con riguardo all’edificazione in relazione ad
altezze, distanze e rapporti tra scoperto e coperto) Mutatis mutandis, le stesse considerazioni fin qui svolte valgono
anche in relazione alla ammissibilità
del mutamento d’uso (o di destinazione d’uso) su una concessione già
rilasciata (e, pertanto, in ordine a fabbricati già esistenti, ma
inseriti in una determinata zona e destinazione di zona). In proposito, prima di richiamare la normativa specifica sul tema, si deve
precisare che, ad avviso
del Collegio - valorizzando il concetto di un ampio godimento degli
immobili da parte dei proprietari, che trova la previsione
costituzionale dell’art. 42 – possono ritenersi ammissibili quei
mutamenti che – nell’ottica di un <<arricchimento dei
contenuti degli strumenti urbanistici di pianificazione>> e fermo
restando il rispetto dei principi generali di base - non comportino uno
stravolgimento così significativo della destinazione di zona ed una
incompatibilità intollerabile rispetto alla ratio
della previsione originaria dello strumento urbanistico di regolazione
del territorio. Appare opportuno, a questo punto, richiamare la normativa in materia di
mutamento di destinazione d’uso. L’art. 1 della legge n. 10/77, in ordine alla trasformazione urbanistica
del territorio e concessione di edificare, prevede che <<ogni
attività comportante trasformazione urbanistica ed edilizia del
territorio comunale partecipa agli oneri ad essa relativi e la
esecuzione delle opere è subordinata a concessione da parte del
sindaco, ai sensi della presente legge>>. L’art. 25 della legge n. 47 del 1985, relativo alla semplificazione
delle procedure, nel testo modificato dall'art. 4, D.L. 5 ottobre 1993,
n. 398 e sostituito dall'art. 2, comma 60, L. 23 dicembre 1996, n. 662,
stabilisce all’ultimo comma che <<le
leggi regionali stabiliscono quali mutamenti, connessi o non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti,
subordinare a concessione, e quali mutamenti, connessi e non connessi a
trasformazioni fisiche, dell'uso di immobili o di loro parti siano
subordinati ad autorizzazione>>.. L'art. 25 legge cit. ha, in sostanza, demandato alle Regioni la
predisposizione dei criteri della eventuale «...regolamentazione, in
ambiti determinati del proprio territorio, delle destinazioni d'uso
degli immobili, nonché dei casi in cui per la variazione di esse sia
richiesta la preventiva autorizzazione del sindaco. La mancanza di tale
autorizzazione comporta... le sanzioni... ed il conguaglio del
contributo di concessione se dovuto». Peraltro, anche l’art. 8 della stessa legge, relativo alla
determinazione delle variazioni essenziali, dispone che <<le Regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto
approvato …. tenuto conto che l'essenzialità ricorre esclusivamente
quando si verifica una o più delle seguenti condizioni>>
tra le quali alla <<lettera a) mutamento della destinazione d'uso che implichi
variazione degli standard previsti dal decreto ministeriale 2 aprile
1968 pubblicato nella
Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968…>>. Infine, l’art. 4, comma 7, del D.L. n. 398/93 alla lettera e) disciplina
la denuncia di inizio di attività. In giurisprudenza con una
analisi puntuale ed attenta- è stata ricostruita la ratio
della legge n. 47 del 1985 in relazione alla formulazione dell'art. 1
della legge n. 10 del 1977 (che allargava l'ambito dell'attività
edilizia dalle singole costruzioni alla «trasformazione del territorio»),
ed è stato precisato che la legge del 1985, senza grande chiarezza,
tendeva a recuperare gli aspetti positivi di due posizioni dottrinarie
che si erano affermate all’epoca (si fa riferimento ad un primo
orientamento più aderente
allo spirito ed alla lettera della legge n. 10 del 1977, che estendeva
sotto il controllo pubblicistico «...ogni
attività comportante trasformazione urbanistica...» e ad un secondo
indirizzo, ancorato all'impianto originario della legge n. 1150 del
1942, e riconducibile ad
una visione più «statica» dell'urbanistica che legava strettamente il
momento della licenza edilizia all'esecuzione di opere; in base a questa
seconda impostazione la costruzione esaurirebbe temporalmente la
funzione della previsione urbanistica che tornerebbe in rilievo o
solamente nel caso di modificazioni strutturali.) Orbene, la Regione Puglia non ha emanato la relativa normativa La giurisprudenza (ex multis,
T.a.r. Campania, sez. I, 30-10-1992, n. 382) ha altresì chiarito che
possono aversi due distinte situazioni. 1)se la disciplina urbanistica permette in una certa zona più
utilizzazioni, non si versa nel caso di «trasformazione urbanistica del
territorio» ai sensi dell'art. 1 della legge n. 10 del 1977 quando si
ha allocazione di una di queste in un immobile senza far ricorso ad
opere (è' infatti evidente che in tali casi la previsione di una
pluralità di possibili attività nell'ambito del comparto sia preceduta
da una previa valutazione delle compatibilità socio-territoriale delle
stesse con il tessuto urbanistico e conseguentemente, qualora venga
posta in essere un'attività consentita dalla normativa urbanistica, non
è necessaria né concessione, né autorizzazione al mutamento
funzionale di destinazione in quanto la stessa disciplina pianificatoria
attribuisce in via generale ai proprietari di immobili di utilizzare
liberamente gli stessi nell'ambito delle attività consentite); 2) se invece il mutamento riguarda una delle attività non ammesse dalla
disciplina di zona si deve distinguere a seconda se la Regione abbia
emanato o meno i criteri
per la regolamentazione delle destinazioni d'uso degli immobili di cui
all’art. 25 citato (a:nella prima ipotesi è possibile far luogo
all'autorizzazione edilizia, previo conguaglio degli oneri di
urbanizzazione se dovuti se naturalmente la variazione di destinazione
richiesta sia compatibile con gli usi ammessi in deroga alla disciplina
dell'area; b:nella seconda ipotesi non è
in ogni caso possibile modificare ad
libitum le destinazioni d'uso degli immobili in contrasto con le
disposizioni del regolamento edilizio in quanto in tale ipotesi manca la
norma che legittima usi diversi in deroga alle norme regolamentari
valide ed efficaci quali quelle del regolamento edilizio). Nel secondo caso (Regione che non emana i relativi criteri) non vi è
dubbio che la normativa urbanistica di zona costituisce un limite al
cambio di destinazione d’uso; tuttavia, se si accede
all’impostazione della naturale capacità espansiva degli strumenti
urbanistici – se pure in limitati casi e senza portare il principio a
conseguenze aberranti – tale limite non appare insuperabile. Da un lato è copiosa la giurisprudenza che menziona la “normativa
urbanistica di zona” o “lo strumento urbanistico nell’ambito della
zona”. D’altro canto è vero però che gli orientamenti giurisprudenziali,
specie recenti, valorizzano il concetto di <uso compatibile e
valutazione concreta della compatibilità degli interventi edilizi>. In altre parole, il Collegio ritiene che possa aversi una situazione nella
quale: 1)l’intervento edilizio progettato è volto a realizzare opere di impatto poco significativo e incidente
sul territorio in minima parte (l’ipotesi è assai vicina al mutamento
di destinazione d’uso senza ricorso ad opere); 2)in relazione a queste si
deve valutare la compatibilità concreta con la destinazione di zona,
avuto riguardo anche ad eventuali insediamenti preesistenti di altro
tipo. Tanto precisato: a)da un lato il Consiglio di Stato (C. Stato, sez. V, 21-07-1995, n. 1113)
ritiene che il mutamento d'uso non collegato a lavori di modifica o a
modificazioni del progetto in corso d'opera, non ha di per sé rilievo
ai fini urbanistici, restando in ogni caso urbanisticamente indifferente
il passaggio da una ad altra destinazione d'uso rientrante nelle varie
destinazioni d'uso consentite dallo <<strumento urbanistico
nell'ambito della zona>>. Altra giurisprudenza (cfr., C. Stato, sez. V, 09-02-1996, n. 146) ha
ritenuto che, nel caso in cui la <<normativa urbanistica di
zona>> non consenta il mutamento di destinazione d'uso di un
immobile, (nella specie, laddove le norme tecniche d'attuazione dello
strumento urbanistico prevedono gli insediamenti per attività
professionali ai piani diversi dal piano terreno degli edifici, solo
quando non siano saturate le quote massime di ogni destinazione, come
indicate nelle schede di ogni unità d'intervento), le convenzioni
intervenute tra il privato ed il comune anche in epoca anteriore, non
possono costituire deroga alla normazione urbanistica, in quanto gli
strumenti urbanistici successivi sono idonei tanto a limitare le facoltà
di un soggetto già destinatario di una concessione edilizia, quanto ad
influire sull'interpretazione e sull'attuazione delle disposizioni
contenute nella convenzione. Nello stesso senso anche T.a.r. Sicilia, sez. Catania, 27-10-1994, n. 2377
in base al quale, ai sensi dell'art. 10 l.reg.sic. n. 37/85, deve
ritenersi che ogni intervento di mutamento della destinazione di uso di
un immobile rispetto a quella impressa con precedente provvedimento
concessorio debba formare oggetto di provvedimento autorizzatorio, a
prescindere dalla sussistenza o meno di realizzazione di opere edilizie,
ed è ammesso solo a condizione che rientri tra i casi di mutamento
<<previsti dallo strumento urbanistico generale e rispetti le
prescrizioni di zona>>. b)dall’altro, la giurisprudenza più recente appare maggiormente
orientata verso una interpretazione evolutiva della normativa e dei
concetti appena richiamati. Con pronuncia del 1998 (C. Stato, sez. V, 03-01-1998, n. 24) il Consiglio
di Stato ha specificato che la richiesta di cambio della destinazione
d'uso di un fabbricato, qualora non inerisca all'ambito delle
modificazioni astrattamente possibili in una determinata zona
urbanistica, ma sia volta a realizzare un <<uso del tutto
difforme>> da quelli ammessi, si pone in <<insanabile
contrasto con lo strumento urbanistico>>, posto che, in tal caso,
si tratta non di una mera modificazione formale destinata a muoversi tra
i possibili usi del territorio consentiti dal piano, bensì in
un'alterazione idonea ad incidere, significativamente sulla destinazione
funzionale ammessa dal piano regolatore e tale, quindi, da alterare gli
equilibri prefigurati in quella. Da ultimo, a conforto della ricostruzione effettuata, si richiama la
pronuncia della Sezione V del Consiglio
di Stato (n. 949 del
23.2.2000) laddove, escludendo la sussistenza di un divieto assoluto di
mutamento delle destinazioni d'uso nelle zone agricole (in attesa che
gli strumenti urbanistici contengano una puntuale disciplina al
riguardo), precisa che, nelle more dell'adeguamento degli strumenti
urbanistici comunali alla suddetta normativa regionale, non può
disconoscersi il potere del Sindaco di assentire <<semplici
cambiamenti d'uso in zona agricola>>, tutte le volte che essi non
si pongano in aperto contrasto con l'assetto urbanistico vigente. Questione diversa è, invece, quella risolta da recentissima sentenza
della Sezione V del Consiglio di Stato (n. 6411 del 27 dicembre 2001)
che ha ritenuto che comporta un diverso carico urbanistico l’utilizzo
di capannone -originariamente destinato ad opificio industriale- per la
gestione di beni finiti, prodotti da altra azienda, regolando il flusso
e il deflusso delle scorte sulla base di valutazioni legate al ciclo di
commercializzazione del bene prodotto (in particolare, è stato ritenuto
che tale attività, attratta nell’ambito della disciplina civilistica
dell’intermediazione commerciale configura il passaggio del capannone
dal settore industriale a quello commerciale). Orbene, nel caso in esame, non sussiste la normativa regionale,
funzionalizzata a prevedere e a disciplinare i casi in cui si possa fare
eccezione alla tassatività delle prescrizioni in materia di
destinazioni d’uso degli immobili. Tuttavia, in base alle argomentazioni svolte circa la capacità espansiva
dei provvedimenti di pianificazione in relazione alla valorizzazione
delle esigenze dello sviluppo economico del territorio (che pure sono
rispettosi delle indicazioni comunitarie, anche in materia di libera
concorrenzialità) si ritiene ammissibile la richiesta trasformazione da
immobile originariamente assentito ad uso abitativo in pizzeria ad uso
esclusivo dei frequentatori del centro sportivo (pure trattandosi di
zona omogenea E del Comune di Campi Salentina) in quanto
le utilizzazioni dei fabbricati non sono solo quelle legate
all’attività di coltivazione e legate alla terra. Sul punto, il Collegio condivide le considerazioni svolte nel ricorso
circa il fatto che la destinazione agricola della zona non determina una
inedificabilità assoluta e preclude solo la creazione di nuova
residenzialità nella zona (che ne snaturi le caratteristiche e la
destinazione primaria); nel
caso di specie, l’intervento è esiguo (mq 73 totali) e ha natura
privata perché destinato esclusivamente ai frequentatori del centro
sportivo. Peraltro, il provvedimento impugnato è motivato sulla base del contrasto
con l’articolo 35-1 del Regolamento edilizio comunale che prevede
attività compatibili con l’agricoltura. Tuttavia, la disposizione citata non esclude l’ubicazione di fabbricati
e attrezzature relative a particolari <<servizi di interesse
pubblico>> (mattatoi, impianti di depurazione dei liquami di
fogna, impianti di incenerimento e attrezzature simili). Appare
opportuno richiamare, in ultimo, alcune decisioni giurisprudenziali che
–oltre ad effettuare la valutazione di compatibilità degli interventi
edilizi in atto- hanno valorizzato il concetto di <attività
libera>>
(cfr. Cons. di Stato, Sez. V,
27 dicembre 1998, n. 852; Sez.
V,
10 marzo 1999, n. 231; T.A.R.
Lombardia, Sezione di Brescia, 24 ottobre 1991, n. 726). Ad
esempio, il Consiglio di Stato, con la prima decisione, ha ritenuto che
<<il mutamento di destinazione d'uso degli immobili deve essere
individuato in base al progetto presentato e non con riferimento ad
ipotesi future. La ratio
sottesa all'imposizione del contributo di urbanizzazione previsto dalla
L. 28 gennaio 1977 n. 10 contestualmente al rilascio di una concessione
di costruzione si fonda sul presupposto dei maggiori carichi urbanistici
che conseguono nella zona alla realizzazione dell'opera assentita;
pertanto, non è dovuto alcun contributo per le opere di trasformazione
di un immobile da una ad aItra destinazione, qualora da tali opere non
risultino mutate “in modo apprezzabile” le caratteristiche
urbanistiche della zona (nella specie si è ritenuto non dovuto il
contributo in questione con riguardo alla trasformazione di un immobile
da uffici a scuola)>>. Sempre
il Consiglio di Stato, con la richiamata pronuncia del 1999, ha
precisato che <<in via generale, salve eventuali normative
regionali richiamate nell'art. 25, ultimo comma, della legge 28 febbraio
1985, n. 47, il mutamento di destinazione d'uso sotto il profilo
edilizio e urbanistico è rilevante solo se conseguente all'esecuzione
di opere tali da rendere l'immobile strutturalmente idoneo ad un uso
diverso da quello precedente. La modificazione d'uso meramente
funzionale (e cioè senza l'esecuzione di opere edilizie) deve invece
considerarsi attività libera, non soggetta nemmeno ad autorizzazione
edilizia>>. Il
Collegio ritiene che si inquadrano in questa (sia pur relativa e
limitata) liberalizzazione dei procedimenti assentivi degli interventi
(minori) e di limitata deregolamentazione anche i seguenti indici ed
aspetti: a)alcune
posizioni dottrinarie recenti, peraltro minoritarie, relative alla
questione delle “opere interne” (di cui all’art. 26 della legge n.
47 del 1985 e alla una nuova definizione legislativa contenuta negli
artt. 4, 7° c., lett. e) del D.L. n. 398/93, conv. in l. n. 493/93, 2,
60° comma, della l. n. 662/96 e 11 del D.L. n. 67/97, conv. con
modificazioni in l. n. 137/97), in base alle quali
non sussisterebbe più il divieto di un aumento delle superfici
utili o di modifica (fuori dal centro storico) della destinazione
d’uso o, per gli immobili della zona A, di modifica delle originarie
caratteristiche costruttive, salvo il rispetto del numero delle unità
immobiliari (si parla infatti di “opere interne di singole unità
immobiliari”);
in particolare, la destinazione d’uso sarebbe stata
praticamente deregolamentata; b)la
circostanza che l’Adunanza Generale del Consiglio di Stato, nel parere
n. 3 del 29 marzo 2001, reso sullo “Schema di testo unico delle
disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia”, ha
convenuto sull’opportunità di sostituire il termine concessione
con un nome nuovo (quale permesso
-corrispondente al termine francese permis
de construction ou de batir- o permissione
o assentimento o altro, il
quale dia il segnale della rivisitazione sistematica operata dalle norme
riformatrici e assestata nel testo unico); che, peraltro, non denoti una
recessione del diritto del proprietario e per converso non disconosca la
funzione sociale del diritto ad edificare, affermata dalla Costituzione;
c)alcune
considerazioni che si traggono dalla lettura del nuovo T.U.
dell’edilizia (decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001,
n. 380) che, in primo luogo, è volto alla riduzione dei titoli
abilitativi (la concessione edilizia e la denuncia di inizio attività,
con conseguente superamento dell’autorizzazione) e che, ad esempio,
sul problema della gratuità o meno della denuncia di inizio attività,
ha demandando all’autonomia comunale la scelta tra le due possibili
soluzioni, ma ha previsto comunque che, in assenza di specifica
deliberazione del Comune, l’intervento edilizio deve intendersi non
assoggettato ad oneri (si ritiene che le considerazioni svolte possono
restare ferme anche se l’art. 10 del citato D.p.r. n. 380 del 2001 ha,
sostanzialmente, confermata l’interpretazione (più restrittiva) della
legislazione precedente sul mutamento di destinazione d’uso
(nel senso che non risulta deregolamentato, essendo sottoposto
– a seconda delle zone e ferma restando una disciplina regionale – a
obbligo di permesso di costruire, o di denuncia di inizio di attività,
di cui all’art. 10, comma 1, lett. c) e comma 2)); d)la
circostanza che, nello stesso predetto parere dell’Adunanza Generale
del 2001 - se da un lato si evidenzia che <l’unicità della
disciplina della materia della concessione edilizia costituisce un punto
fondamentale di omogeneità, indispensabile per dare garanzia al
cittadino di uniformità di comportamenti in qualsiasi Regione egli
intenda operare nel settore; la stessa non può pertanto costituire
oggetto di una disciplina differenziata da Regione a Regione> -
dall’altro, si riscontra, in fatto, la sussistenza, in alcune
Regioni di una <legislazione in difformità dalla disciplina
generale, con l’istituzione, ad esempio, della cd. super
d.i.a., (sulla quale il Governo non ha ritenuto di sollevare in
proposito questione di legittimità costituzionale)>. Tale
diversificazione, avvertita a livello regionale, può
essere letta come un indice della naturale esigenza di evoluzione e di
adeguamento della normativa in materia. In conclusione, per quanto sopra esposto, il ricorso deve essere accolto. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese. PQM Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia,
sez.I^ di Lecce, definitivamente pronunciando, accoglie il ricorso in
epigrafe e, per l’effetto, annulla il provvedimento impugnato in data
11 ottobre 2000. Dichiara integralmente compensate tra le parti le
spese del giudizio. Ordina che la presente Sentenza sia eseguita
dall’Autorità Amministrativa. Così deciso in Lecce nella camera di consiglio del
10.1.2002. Presidente Aldo Ravalli Estensore Maria Ada Russo |